L’inarrestabile ascesa dei precari della scuola: superata quota 140mila, la metà di tutta la PA

Pubblicato il Conto annuale della Ragioneria dello Stato: dei 307.000 dipendenti pubblici con contratti di lavoro flessibili, quasi la metà sono docenti e Ata. Pacifico (Anief-Confedir): ecco perché l’Unione Europea ci condanna, siamo all’allarme rosso e il Governo assume solo per coprire il turn over.

L’inerzia del governo italiano sulla stabilizzazione dei dipendenti pubblici precari sta producendo numeri sempre più da record: in queste ore la Ragioneria dello Stato, attraverso il Conto annuale, ha quantificato che nel 2012 lavoravano nella pubblica amministrazione 3.036.000 lavoratori con contratti a tempo indeterminato. Di questi, 307.000 erano precari con contratti di lavoro flessibili: quasi la metà di costoro (140.557) era impegnato nella scuola.

“I numeri emessi dai contabili pubblici confermano quanto denunciato dall’Anief dal 2010 - spiega Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario organizzativo Confedir –: l’abuso del personale precario con contratti a termine sta producendo una situazione da allarme rosso. Soprattutto nella scuola, dove oltre il 15% del personale è precario lasciato in questo stato per troppi anni: basta dire che costituiscono la metà dei precari di tutta l’amministrazione pubblica. E poco servono le 69mila assunzioni previste dal Governo in tre anni: poiché i dipendenti del comparto scuola vanno in pensione al ritmo di 20-25mila l’anno, si è provveduto semplicemente a coprire il turn over”.

Le decisioni prese dai nostri governanti non fanno altro che confermare la sistematica violazione della normativa comunitaria in tema di precariato della scuola: prima si è recepita la direttiva 199/70/CE, attraverso l’art. 6 del decreto legislativo 368/01. Ma successivamente si è preferito adottare degli escamotage di Stato, culminati con la legge derogatoria 106/2011. Peraltro rafforzati da una sentenza della Cassazione che nell’estate del 2012 ha recepito l’interpretazione autentica del legislatore.

Quando tutto sembrava avallare il ricorso sistematico ai precari per continuare ad abusare degli incarichi anche su posti vacanti e disponibili – basti pensare che in un decennio ne sono stati utilizzati oltre 300mila - , in soccorso dei nostri supplenti, del loro diritto di vedersi trasformato il contratto da tempo determinato a indeterminato, è intervenuto un giudice di Napoli, il dott. Coppola. Il quale ad inizio 2013 ha rinviato alla Corte di giustizia dell'Ue un ricorso “pilota” in merito alla legge derogatoria n. 106/11: l’esito interesserà quelli presentati da più di 20mila precari della scuola con contratti a tempo determinato, anche non continuativo, per un periodo superiore ai tre anni. “A tal proposito – commenta ancora Pacifico – c’è da ricordare che secondo il trattato di funzionamento della Comunità europea, una sentenza della Corte di giustizia dell'Ue è vincolante per ogni giudice nazionale. Il quale, anche in presenza di una sentenza della Corte di Cassazione o della Corte costituzionale italiana, dovrà adeguarsi sul tema decidendum”.

“In attesa di questa sentenza decisiva da parte dei giudici di Lussemburgo – continua il sindacalista Anief-Confedir – l’Italia è impegnata a difendersi anche da una serie di procedure d’infrazione attivate dall’Ue nei suoi confronti. Come la 2020/2010, già trasformata in atto di messa in mora a seguito della presentazione del ricorso da parte di un precario non docente: il concetto di fondo dell’Ue è che le ragioni di finanza pubblica, seppur comprensibili, non possono mortificare la professionalità dei lavoratori e discriminarli sia in tema di retribuzione sia di stabilizzazione”.

I rilievi della Commissione Ue sul tema sono continui. L’ultimo è giunto meno di un mese fa: Bruxelles ha ricordato al governo italiano che tanti suoi dipendenti continuano ad essere “impiegati con contratti a termine ma 'continuativi', per molti anni”, lasciati “in condizioni precarie nonostante svolgano un lavoro permanente come gli altri”. E questa situazione “è contraria alla direttiva sul lavoro a tempo determinato”. A questo punto, l'Italia ha pochi giorni di tempo per rispondere. Altrimenti la Commissione la porterà dinanzi alla Corte Ue. Il tempo sta scadendo.

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