Varie

il numero di ore è quasi lo stesso e a fine carriera il gap diventa altissimo

Tutti gli studi, nazionali ed internazionali, convogliano su un dato inequivocabile: tra i paesi economicamente e socialmente più avanzati, gli insegnanti italiani sono tra i meno pagati. L’ultima indicazione giunge da un’elaborazione delle tabelle, aggiornate al 2010, dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico: rispetto alle retribuzioni dei 35 paesi dell’area Ocse che hanno fornito i dati, l’Italia si colloca al 24° posto su 35.

Se si analizza il dato per settori scolastici, pur lavorando sostanzialmente lo stesso numero di ore, i docenti della scuola superiore guadagnano in media 36.582 dollari, l'11,2% in meno rispetto alla media dell'Ocse (con un differenziale negativo di oltre 4.500 dollari). Non va meglio per i docenti delle medie, per i quali se lo stipendio negli ultimi 10 anni è aumentato del 4,6% (contro però un +18,2% dei paesi Ocse), il reddito rimane fermo a 35.583 dollari, cioè il 9,7% in meno rispetto alla media dei colleghi (quasi 4.000 dollari di differenza).

Ma i più penalizzati in Italia rimangono i maestri dalla scuola primaria, che hanno un reddito medio di appena 32.658 dollari, pari al 13,1% in meno rispetto alla media Ocse che corrisponde a quasi 5.000 dollari. Per non parlare del fatto che lo stipendio dei maestri italiani nell’ultimo decennio è aumentato del 5,2%, a fronte di una media del +22,5%. E questo sebbene alla primaria il numero di ore raggiunga la considerevole quota di 770, in linea con quella degli altri paesi dell’area.

“Questi dati – commenta Marcello Pacifico, presidente Anief e delegato Confedir alla scuola – confermano che, a dispetto di quanto vogliono farci credere il Governo e il Ministro Profumo, negli ultimi anni le ore di lavoro dei nostri insegnanti sono già aumentate. Ma lo stesso non vale per le retribuzioni, visto che anche dalla recente indagine Ocse ‘Education at a Glance’ è risultato che fatto 100 lo stipendio medio degli insegnanti dei 37 paesi economicamente più progrediti, la busta paga dei docenti italiani è cresciuta ogni anno a partire dal 2005 solo del 4-5%; mentre nella media Ocde l’incremento è stato del 15-22%. Col risultato che nel 2010 il reddito medio dei docenti italiani era di 32mila euro lordi, mentre in Inghilterra superava i 49mila”.

Per non parlare del fatto che in Italia non esiste una carriera dei docenti: “dal momento dell’accesso alla professione, i nostri insegnanti – ricorda Pacifico - si ritrovano in busta paga 28.000 euro, una cifra abbastanza in linea con i colleghi europei. Ma nel corso dell’ultimo anno di servizio, quello precedente alla pensione, si forma un gap incredibile: tra i 7mila e gli 8mila euro”.

Il sindacalista di Anief e Confedir ritiene che non c’è altro tempo a perdere: “questa perdita secca dei salari influisce molto sulla motivazione del corpo insegnante, che accede al ruolo dopo anni di sfruttamento da precario e che di fatto non ha una prospettiva di carriera. Per cambiare rotta - conclude Pacifico - bisogna assolutamente tornare ad alzare l’asticella degli investimenti delle spesa pubblica nel settore dell’istruzione, sbloccare gli stipendi fermi al 2009, ridefinire gli organici e attuare un piano di assunzioni su tutti i posti vacanti”.

 

Le Organizzazioni sindacali ANIEF, CUB-Sur, Orsa Scuola, SAB, Unicobas Scuola, USB PI-Scuola e USI Scuola, riunite il 24 ottobre a Roma, ritengono gravissimo l'attacco alla Scuola pubblica Statale portato avanti dal Governo Monti, prima con la spending review e ora con la Legge di “stabilità”.

L'aumento dell'orario di lavoro a parità di stipendio per i docenti è solo l'ultima dimostrazione dell'arroganza del Governo e dell'infima considerazione dei suoi sostenitori, politici e poteri economici, nei confronti dei lavoratori della scuola e della formazione della nuova generazione.

Decenni di tagli, di controriforme, di regali ai privati stanno demolendo l'immenso lavoro che ogni giorno 8 milioni di studenti e lavoratori fanno per conquistare un presente degno e un futuro di pace e libertà. È per questo che il movimento della scuola sta ripartendo dal basso con determinazione.

È preoccupante, invece, il teatrino politico-sindacale che tenta di annullarne la prospettiva solo per fini elettorali, dando soluzioni minime e temporanee (i rumors della sola cancellazione dell'aumento delle ore a parità di stipendio) nascondendo provvedimenti ben più gravi. Ogni ipotesi di piattaforma indistinta e generica che non ponga complessivamente la rivendicazione della riconquista della scuola pubblica e non individui le politiche della Banca Centrale Europea all'origine dei provvedimenti presi dal Governo Monti, è irricevibile.

L'opposizione al DdL ‘Aprea’, alla chiamata diretta dei lavoratori da parte dei Dirigenti, alla spending review che ha colpito in modo indegno il personale ATA, i docenti inidonei, i precari e addirittura le minoranze linguistiche, sono parte integrante della nostra lotta alla politica dei ricatti che sta escludendo i figli dei lavoratori dalla Scuola.

L'USB, l'Unicobas, l'USI, L'ORSA e il SAB intendono mantenere la propria iniziativa di sciopero generale dei lavoratori per il 16 novembre con manifestazione nazionale a Roma.

Le stesse OO.SS. si riservano, vista la situazione generale dei lavoratori di tutte le categorie e nel caso le Confederazioni Generali individuassero una data diversa di mobilitazione nazionale, di conformare date e iniziative, coscienti dell'attacco su tutti i fronti ai lavoratori della Scuola.

Tutte si impegnano insieme all'ANIEF e alla CUB-SUR a individuare un’ulteriore data largamente condivisa, che possa garantire la massima partecipazione dei lavoratori.

Le OO.SS. proclamano da subito lo stato di agitazione della categoria, a livello locale e nazionale, così articolato: nella settimana dal 5 al 10 novembre, in concomitanza con la discussione in Parlamento degli emendamenti al testo della Legge di stabilità, si terrà l'iniziativa di lotta "Profumo di didattica" che prevede assemblee dei lavoratori, con studenti e genitori, didattica alternativa e l'astensione da ogni attività aggiuntiva non obbligatoria, presìdi ed iniziative locali.

Roma, 25 ottobre 2012 

in Sicilia agli alunni delle primaria il tempo pieno è garantito solo nel 3% dei casi. In Lombardia lo stesso servizio è messo a disposizione del 90% degli iscritti. La forte discrepanza si deve anche e soprattutto alla mancanza delle mense scolastiche. Appello del sindacato ai candidati alla presidenza della Regione: si impegnino sin d’ora, prima di essere eletti, a farle attivare in tutte le scuole siciliane.

Fa un certo effetto sapere, leggendo il libro “C’è un’Italia migliore”, scritto da Nichi Vendola, candidato alle primarie del Pd, che nel 2012 il tempo pieno nella scuola primaria è stato attivato nel 90 per cento degli istituti della Lombardia; mentre in Sicilia dello stesso servizio pubblico ha usufruito appena il 3 per cento degli alunni. E che, di conseguenza, al termine dei cinque anni di scuola primaria i bambini della Sicilia studieranno 430 giorni in meno, che corrispondono a più di 2 anni scolastici.

“Questa enorme disparità – commenta Marcello Pacifico, presidente dell’Anief – se confermata dimostra che nella scuola siciliana occorre attuare il prima possibile adeguati incentivi. Finanziari, ma anche di carattere strategico. Questi serviranno, tra l’altro, ad attivare il servizio mensa. La cui mancanza, in quasi tutte le scuole primarie della Sicilia, è alla base della scarsità di istituti che garantiscono il tempo pieno nell’isola”.

L’Anief si rivolge, quindi, a tutti i candidati alla presidenza e dell’Assemblea della Regione Sicilia, la cui elezione è stata fissata per l’ultima domenica di ottobre: si impegnino sin d’ora, prima di essere eletti, a fare in modo che nel più breve tempo possibile tutte le scuole primarie della regione siano fornite di una mensa. “Solo in questo modo – sottolinea il presidente del giovane sindacato – sarà possibile permettere la permanenza a scuola degli alunni anche nel pomeriggio. Ed in tal modo tentare seriamente di ridurre il fenomeno della dispersione scolastica e di elevare la qualità della didattica”.

C’è, inoltre, un risvolto sindacale non certo marginale su cui vale la pena soffermarsi: “la generalizzata riduzione d’orario – sostiene Pacifico – spiegherebbe anche la penuria di posti di lavoro nelle scuole della Sicilia. Dove, rispetto all’alto bacino d’utenza, l’organico dei docenti e del personale Ata continua ad essere decisamente basso. Incrementare le ore di scuola permetterebbe, quindi, di portare il numero di posti dei docenti, degli amministrativi, dei tecnici e degli ausiliari a livelli più confacenti ad una delle regioni più grandi d’Italia”.

 

È beffardo il destino degli insegnanti che operano in Italia: nel giorno della giornata mondiale del docente, celebrata in più di cento Paesi per ricordare l’alta valenza sociale di questa professione, la Commissione europea pubblica un rapporto dal quale risulta che se si tiene conto del costo dell’inflazione l’entità degli stipendi degli insegnanti italiani è ferma addirittura al 2000. Nel rapporto sugli stipendi e le indennità degli insegnanti e dei presidi in Europea viene, inoltre, rimarcato che il mancato riconoscimento stipendiale “disincentiva l'ingresso nella professione dei soggetti migliori e dunque la qualità dell'insegnamento, fondamentale per la crescita economica”.

Questi dati confermano quanto sottolineato nei giorni scorsi dall’Anief, che nel riportare l’ultima indagine Ocse “Education at a Glance” si era soffermata su un punto: tra il 2000 e il 2010, fatto 100 lo stipendio medio degli insegnanti dei 37 Paesi economicamente più progrediti, lo stipendio in Italia è cresciuto ogni anno a partire dal 2005 solo del 4-5%; mentre nella media Ocde l’incremento è stato del 15-22%. E ciò è avvenuto per colpa della percentuale di spesa del PIL (4,9%) che l’Italia dedica al settore della conoscenza, rispetto alla media Ocse del 6,2%. Risultato: nel 2010, il reddito medio degli insegnanti italiani si colloca intorno a 32.000 euro lordi, in Inghilterra supera i 49.000 euro.

A parte il minore investimento, permane poi la differenza tra stipendio iniziale e di fine rapporto, a testimonianza di una carriera che in Italia non c’è: infatti, nell’accesso alla professione, i docenti italiani si ritrovano in busta paga quanto i colleghi europei (28.000 euro), ma nell’ultimo anno prima della pensione perdono, in media, tra i 7.000 e gli 8.000 euro. Ciò malgrado, in questi ultimi dieci anni i nostri docenti hanno visto aumentare le ore di insegnamento (da 744 a 770, rispetto a una media Ocde da 762 a 782 per la primaria, da 608 a 630 rispetto a una media Ocde da 681 a 704 per la secondaria di primo grado, da 605 a 630 rispetto a una media Ocde da 608 a 658). Inoltre, gli insegnanti italiani lavorano 39 settimane rispetto alle 38 Ocde, 175 giorni rispetto ai 185 Ocde.

Secondo l’Anief non c’è più tempo da perdere. Lo sanno bene anche gli studenti, scesi oggi in diverse piazze italiane per rivendicare una politica che torni ad investire sull’istruzione pubblica, sugli stipendi dei docenti italiani, ormai i più bassi d’Europa, anziché tagliare fondi, risorse e organici per pareggiare i bilanci di amministrazioni pubbliche gestite con superficialità e all’insegna degli sprechi.

Questi dati confermano che se si vuole cambiare il futuro delle nuove generazioni e della nostra società – sostiene Marcello Pacifico, presidente Anief e delegato ai quadri e direttivi della Confedir - bisogna immediatamente ripartire dalla valorizzazione del ruolo del docente. Cancellando una volta per tutte la tendenza degli ultimi anni, durante i quali l’insegnante italiano è stato sempre più mortificato da iniziative peggiorative della qualità della professione”.

Come diversamente si potrebbe commentare – continua Pacifico – la volontà del Parlamento, addirittura bipartisan, di rivedere gli organi collegiali riducendo gli spazi di autorevolezza del collegio dei docenti? Oppure dell’ostinazione nel non considerare l’insegnamento una professione logorante, anzi applicando una tassa sul giorno di malattia, a dispetto degli ultimi autorevoli rapporti nazionali che indicano l’alta percentuale di docenti che si sono ammalati di burnout?  degli ultimissimi autorevoli rapporti nazionali che indicano Per non parlare del fatto che alla mancata possibilità dei docenti italiani di poter fare un minimo di carriera, si è aggiunta nel 2010 la decisione di bloccare pure gli scatti automatici dello stipendio per addirittura tre anni? E che dire del recente concorso a cattedra, che il Miur vorrebbe negare a tutti i laureati degli ultimi 10 anni e ai docenti di ruolo?”.

Ma docenti e precari, che si pagano tutto da soli, sono forse figli di un dio minore?

Per quale motivo i dirigenti scolastici vengono formati dal Miur gravando la spesa sulle scuole, mentre i docenti che acquisiscono gli strumenti e le conoscenze per insegnare, prima attraverso la frequenza delle SSIS ed oggi dei Tfa, sono obbligati a pagare delle tasse proibitive, anche superiori ai 3mila euro?”.

A chiederlo è l’associazione sindacale Anief, dopo essere venuta a conoscenza che le spese di viaggio che i prossimi dirigenti scolastici vincitori dell’ultimo concorso, su cui peraltro si attendono ancora importanti sentenze della giustizia amministrativa, dovranno affrontare per raggiungere Roma, dove il 5 ottobre si svolgerà un seminario formativo utile allo svolgimento della professione, risultano “a carico del bilancio delle scuole”. E nel caso i fondi degli istituti non fossero sufficienti, il Miur ha già allertato i direttori degli Uffici scolastici regionali, chiedendo loro di “adoperarsi per la migliore riuscita dell’iniziativa”.

La discrasia – dichiara il presidente dell’Anief, Marcello Pacifico - diventa ancora più evidente se si guarda ai precari, costretti da decenni ad iscriversi e a frequentare costosissimi corsi di perfezionamento e master annuali per non perdere posizioni nelle graduatorie ad esaurimento. Lo Stato non può usare due pesi e due misure, peraltro con il personale dello stesso settore pubblico: i docenti e i precari non sono figli di un dio minore”.