La Corte d'Appello di Ancona rigetta il ricorso del MIUR avverso le sentenze di primo grado favorevoli alle tesi sostenute dall'ANIEF sul diritto dei precari a percepire la medesima progressione stipendiale prevista per i docenti di ruolo e accoglie l'appello incidentale proposto dal nostro sindacato - che ha affidato il patrocinio sul territorio delle proprie iscritte all'ottimo operato dell'Avv. Luca Ficuciello - per ottenere il riconoscimento del danno subito dalle nostre iscritte secondo il principio della prescrizione decennale e non quinquennale essendo “un credito che non è meramente retributivo, ma deriva da violazione di direttiva comunitaria, ed è soggetto pertanto a prescrizione ordinaria decennale”.
I Giudici della Corte d'Appello di Ancona, in una delle sentenze di rigetto degli appelli proposti dal MIUR che ha continuato a opporsi alle statuizioni dei Giudici di primo grado, hanno con forza accolto le richieste dell'ANIEF e convenuto con quanto da sempre sostenuto dal nostro sindacato considerando l'assurdità delle asserzioni del MIUR sul fatto che la necessità di assicurare il funzionamento delle scuole “possa coniugarsi con la presenza, nelle stesse, di stuoli di insegnanti, e di schiere di collaboratori assunti a tempo determinato, come se si prevedesse la cessazione di tale necessità per eventualità che potrebbero verificarsi soltanto con lo sterminio degli scolari, ovvero con il ritorno all'analfabetismo diffuso”.
La sentenza continua con una dura e incontrovertibile considerazione dichiarando che “non si comprende come potrebbe configurarsi una “esigenza di settore” idonea a giustificare una eccezione alla regola generale che impone la costituzione di rapporti a tempo indeterminato, con la necessità di mandare avanti l'attività scolastica, attività che, per sua natura, essendo rivolta ad una intera popolazione, e svolgendosi con durata e costanza, non ha, e non può avere, caratteri di occasionalità e precarietà” ricordando anche al Ministero dell'Istruzione che “la regola della prevalenza del rapporto a tempo indeterminato è scolpita nelle direttive della Unione Europea, nella Costituzione della Repubblica Italiana, e nelle leggi dello Stato. Mentre la giustificazione addotta deriva, evidentemente, da una “necessità” causata da una violazione pluridecennale, pervicace, smaccata della regola”.
I Giudici della Corte d'Appello di Ancona, sposando in pieno le argomentazioni prodotte dall'ANIEF, rilevano anche che “nel caso in questione, è sufficiente osservare che la dicotomia tra dipendenti in ruolo, a tempo indeterminato, e non di ruolo, a tempo determinato, non corrisponde affatto a una qualsiasi esigenza pratica, meno che mai ad esigenze che si riferiscano a condizioni e situazioni contingenti, soggette alla occasionalità e imprevedibilità di eventuali sopravvenienze. Se non per una piccola percentuale di dipendenti, che vengano utilizzati per sostituire assenti, o per sovvenire a circostanze eccezionali, mentre invece, come è notorio, e dedotto dallo stesso Ministero, i dipendenti a termine costituiscono, nelle scuole italiane, una percentuale elevatissima del personale, senza necessità alcuna, e senza neppure alcun ipotizzabile vantaggio. Almeno per quanto è da ritenere, alla stregua della logica elementare, e nella totale assenza di qualsiasi giustificazione razionale addotta dalla Amministrazione”.
La conclusione è, quindi, obbligata: “la sentenza impugnata deve essere confermata alla stregua del criterio, adeguato, congruo e legalmente fondato, che si riferisce alla illegittima differenziazione tra le retribuzioni erogate, e quelle spettanti ai dipendenti a tempo indeterminato. Gli argomenti addotti per contrastare tale ineludibile conclusione sono palesemente fallaci, e smaccatamente infondati. Si giunge addirittura a dedurre una esigenza per gli effetti sugli equilibri di finanza pubblica, sostenendo nel contempo una ragionevolezza del sistema, per giustificare un assetto inefficiente, iniquo e assurdo”.
A tale conclusione, fortemente voluta dall'ANIEF, i Giudici giungono con fermezza, sostenendo che “tanto corrisponde a criteri di mera logica, e quindi di giustizia, indipendentemente dalla normativa. Normativa che inoltre, e comunque, ciò impone, sancendo tali principi ed elevandoli addirittura a regole di livello costituzionale. Che non possono subire violazioni sistematiche, pervicaci, globali, quando sarebbe consentita, tutt'al più, la deroga specifica, e puntuale, motivata da esigenze contingenti ed eccezionali. E rilevanti e sufficienti se e in quanto corrispondenti ad esigenze primarie ed ineludibili, suscettibili di essere comparate, e valutate a livello analogo e sullo stesso piano dei fondamentali criteri di razionalità, efficienza, uguaglianza ai quali si ispira e nei quali si concreta l'ordinamento della Repubblica”.
Sul punto i Giudici, prima di concludere statuendo anche l'ovvia condanna alle spese del MIUR, ritengono “necessaria una puntualizzazione che può apparire, anzi, è banale, e dovrebbe essere considerata superflua; ma evidentemente non lo è se è necessario esprimere tale ovvia considerazione. Nel senso che l'evoluzione del diritto corrisponde all'affermazione del principio, che è principio razionale, prima ancora che democratico, secondo cui alla volontà del principe, ed al principio autoritario, si è sostituito (o dovrebbe essersi sostituito) il fondamento della logica e della razionalità […] E non consente all'interprete di seguire aberrazioni logiche che collidano, irrimediabilmente, con la verità, palese e indiscutibile, quale è quella che distingue il bianco dal nero. Sicché non è dato attribuire ad una affermazione del legislatore senso diverso da quello compatibile con l'esigenza del rispetto del vero, sempre che, ovviamente, il vero sia indiscutibile e indiscusso, e si rimanga sul piano dell'effettività irrefutabile. Ed è questo il caso in cui si voglia interpretare una norma attribuendo alla stessa l'effetto di conferire il carattere della opinabilità e della ammissibilità ad una affermazione contrastante con il vero; e tale affermazione concerne, secondo una certa interpretazione, la “temporaneità delle esigenze”, conferendo tale attributo, che assurge a valutazione definitiva e insuperabile, ad una situazione, e ad un sistema, e ad un assetto che temporaneo non è. Perché questa è la sostanza del problema; se possa il legislatore, e se possa l'interprete, considerare come temporaneo, per definizione, il sistema della istruzione pubblica, e come tale sottratto ai principi ed alle regole che si dovrebbero applicare se temporaneo non fosse”. E se sia sufficiente un tratto di penna a rendere nero il bianco, e bianco il nero. Superando così ogni problematica, così come quello secondo cui i pubblici dipendenti debbano essere selezionati, e l'altro se sia tollerabile che siano trattate in modo diverso situazioni identiche, e se l'equilibrio finanziario possa essere perseguito con misure a discapito di alcuni, per non pregiudicare altri, anziché con provvedimenti di carattere generale ed applicati equamente”.
A queste domande sulla necessità del rispetto dello Stato di Diritto, la Corte ritiene “che la risposta, logicamente corretta, e la soluzione, giuridicamente adeguata, e giusta, corrisponde ai principi costituzionali, e non possa essere elusa allegando difficoltà che derivano esclusivamente dalla gravità di pregresse e pervicaci violazioni” concludendo che “non può quindi attribuirsi, all'art. 9, comma 18, del DL 70 del 2011, convertito in legge 106 del 2011, il senso, e l'effetto, propugnato dalla difesa erariale” e tiene a soffermarsi anche sulla considerazione che “è sufficiente l'uso della razionalità elementare per escludere che possa attribuirsi alla norma il senso che per garantire la continuità della pubblica istruzione fosse e sia indispensabile, e quindi ammissibile, continuare nell'andazzo dell'assumere […] personale precario, in massa. E per escludere quindi che il termine, ed il concetto di “supplenza” possano essere intesi nel senso di sostituzione di dipendenti temporaneamente assenti per motivi contingenti, ma possano ed addirittura debbano essere interpretati come copertura di posti vacanti, e lasciati vacanti con il fine di arruolare personale precario”. Dopo questa lapidaria conclusione, la stessa Corte ritiene che “tanto dovrebbe bastare. Senza necessità di ricordare che, comunque, la normativa nazionale, se interpretata come contrastante con la normativa europea, potrebbe e dovrebbe essere disapplicata (Corte Costituzionale, sentenza 113 del 1985 e 170 del 1984); e ciò nel termine di prescrizione di dieci anni (Cass. III 10813 del 2011). rilevando che “né la discriminazione potrebbe essere giustificata dallo “status” dei dipendenti, per non essere stati costoro “arruolati”. Come se l'aver assunto “male” i dipendenti possa giustificare la prassi di retribuirli “male”, poiché una grave illegittimità non può certo essere condonata perché si è commessa altra concomitante illegittimità. Né infine può costituire attenuante, e meno che mai scriminante, la prospettiva che alla illegittimità della assunzione si potrebbe ovviare, in un futuro eventuale, con un successivo “arruolamento”. Poiché la eventuale e incerta sanatoria non ovvierebbe affatto al pregiudizio precedentemente maturato”.
La Corte accoglie, quindi, l'appello incidentale proposto dall'ANIEF considerandolo “fondato quanto alla prescrizione, non potendosi applicare la prescrizione breve, quinquennale, ad un credito che non è meramente retributivo, ma deriva da violazione di direttiva comunitaria, ed è soggetto pertanto a prescrizione ordinaria decennale (Cass. 10813 del 2011)”. MIUR condannato anche, e ovviamente, alle spese di giudizio in entrambe le sentenze per un totale di 4.400 Euro.