Confindustria divorzia dal Governo: se dobbiamo pagarlo noi, diciamo no. Anche il viceministro Calenda perplesso sui fondi previdenziali in busta.
Schivato il pericolo di una bocciatura sulla riforma dell'articolo 18 da parte del partito che lo sostiene, ora Renzi si trova di fronte un dossier meno rilevante dal punto di vista ideologico ma sicuramente più insidioso per la tenuta del suo governo. L'idea di portare in busta paga una parte del Tfr, il Trattamento di fine rapporto, ha infatti creato un fronte anti Renzi che ieri si è arricchito di un componente come Confindustria, finora sponsor quasi incondizionato della politica del premier. E non solo. La spaccatura che per ora è solo una frizione rischia di verificarsi anche all'interno dello stesso esecutivo. Il viceministro dello Sviluppo Economico, Carlo Calenda, ha infatti ribadito ieri che «il governo farà l'operazione del Tfr se lascerà indenni le pmi dal punto di vista della liquidità». Ora è evidente che una manovra del genere avrà inevitabilmente una ripercussione sul quadro finanziario di ogni azienda italiana e dunque sarà difficile mantenere la promessa.
L'AFFONDO DI SQUINZI
Si erano tanto amati. Ma quando si tocca il portafoglio anche il più grande idillio è a rischio crac. Cosa che ieri è puntualmente arrivata tra il leader confindustriale Giorgio Squinzi e Matteo Renzi. Dal palco napoletano del Forum della piccola industria, la categoria più colpita dall'intervento sul trattamento di fine rapporto, Squinzi ha annunciato il divorzio: «Per quel poco che si è capito finora dall'annuncio di un intervento sul Tfr, l'unico reale beneficiario di questa operazione sarebbe il Fisco. Se l'ipotesi sul Tr fa sparire con un solo colpo di penna circa 10-12 miliardi per le imprese italiane, se questa è la strada che s'intende seguire, la risposta è semplice. Ce l'ho già oggi: è no».
CREPE NEL GOVERNO
Non è ancora una spaccatura ma un distinguo che segnala che anche nell'esecutivo le idee non sono tutte univoche sul punto. Il viceministro Calenda ha spiegato che «se si riuscirà a fare un'operazione neutra per le pmi, mandando più soldi in tasca agli italiani, allora funzionerà. Ma se toccherà le pmi il Governo non lo farà. Il settore industriale può trainare la ripresa, va aiutato e supportato. È evidente che un percorso che danneggia le piccole e medie imprese in momento difficile di ricorso al credito è impossibile da percorrere». Anche perché ha aggiunto il viceministro, c'è un problema non di poco conto da superare e cioè la necessità di una collaborazione del sistema bancario: «Se si riesce con il sistema bancario a mandare direttamente più soldi in tasca agli italiani, allora funzionerà».
IL PUBBLICO A SECCO
«La decisione del Governo di escludere i dipendenti pubblici dal piano di anticipo mensile in busta paga, oppure come quattordicesima, del pagamento del Tfr non è casuale, ma va ricondotta al fatto che lo Stato non ha mai versato quei contributi, se non a titolo figurativo». A denunciarlo è l'associazione sindacale Anief. Ma per l'Anief se anche la copertura dovesse arrivare, la somministrazione graduale del Trattamento di fine rapporto non costituisce una buona opportunità.
LE SOLUZIONI
Difficile immaginare uno sblocco dell'impasse. In una conversazione con un civil servant dello Stato, per esempio, è emerso che la soluzione potrebbe passare portando il tema a livello di discussione europea. Ogni Paese, infatti, prevede forme di liquidazione a chi lascia il lavoro. L'ammontare del Tfr, che rappresenta un debito per l'azienda, potrebbe essere anticipato al 50% dalle banche alle quali la Bce dovrebbe però aprire linee di credito dedicate, alimentate al saggio di sconto ufficiale. Il dipendente potrebbe chiedere a quel punto la sua liquidità a un tasso superagevolato, ad esempio, al massimo l'1%, garantito dal corrispomdente ammontare del Tfr maturato al momento della richiesta. Soldi che, a seconda i desideri dei percettori, potrebbero entrare nel circolo dei consumi e investimenti. Questo consentirebbe di accrescere la disponibilità di liquidità delle persone fisiche come negli intenti del governo. Nel differenziale tra il tasso di sconto e quello applicato a chi lo utilizza, devono essere comprese le spese di gestione bancaria e una quota assicurativa per coprire i rischi di eventuali default aziendali. Il modello poi dovrebbe essere idealmente uniforme in tutta Europa e, in Italia, negoziato con l'Abi, per renderlo il più semplice possibile agli utenti.
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