La mancanza di tutele per le quote “rosa” nei nostri istituti scolastici riguarda un numero di lavoratrici percentualmente più alto di qualsiasi altro comparto pubblico: sfiora, infatti, l’82%. Significa che in media, all’interno di ogni scuola autonoma, quattro insegnanti su cinque in servizio sono donne. Tra gli amministrativi, tecnici e ausiliari tre su quattro sono donne. E anche sei dirigenti scolastici su dieci appartengono al sesso femminile. In Europa, solo l’Ungheria ha più donne in cattedra (82,5%); in Spagna le insegnanti si fermano al 63%, negli Stati Uniti al 74%. Nel Belpaese, invece, a livello di scuola dell’infanzia le docenti costituiscono il 99,3% dell’organico. Nella scuola primaria, alle maestre sono affidate il 96% delle cattedre (in Spagna il 75%, nel Regno Unito l’81%, in Francia l’82%).
A questa alta presenza, tuttavia, non corrisponde una valorizzazione professionale. Anzi, si può parlare di un assetto lavorativo particolarmente difficile: le lavoratrici della scuola, infatti, risultano fortemente discriminate nello svolgimento dell’occupazione, del rapporto con l’amministrazione pubblica per la quale operano, con riflessi negativi anche nella tutela della propria vita familiare. La mancata considerazione per il corpo insegnante parte dagli stipendi ridotti: oggi una donna che insegna in Italia guadagna tra i 24mila e i 38mila euro. Se si considerano anche gli Ata, il compenso annuo medio - complice il blocco decennale e l’inflazione salita a doppia cifra – è sceso a poco più di 28mila euro annui medi, che fanno vestire alla Scuola la maglia nera degli stipendi di tutta la PA. Anche il raffronto con il comparto privato e con l’estero è in perdita. Il problema è anche quello dalla mancata crescita professionale, visto che quasi sempre una dipendente della scuola va in pensione con lo stesso profilo professionale con cui è entrata decenni prima: non è un problema di competenze, perché queste donne nel frattempo hanno vinto concorsi, si sono abilitate e specializzate.
Marcello Pacifico (Anief-Cisal): La realtà è quella di stipendi ridotti, molto lontani dell'inflazione registrata negli ultimi dieci anni, di vincoli sulla mobilità, di una lunga precarietà che precede l'assunzione a tempo indeterminato, di un allungamento di un decennio dell'età pensionabile spostata fino alla soglia dei 70 anni: le condizioni di lavoro delle donne italiane che hanno scelto il comparto dell'istruzione devono fare riflettere. E pensare che agli occhi dell’opinione pubblica queste lavoratrici sono considerate fortunate. L’emblema del trattamento iniquo a cui sono sottoposte è rappresentato dalla recente vicenda delle 50mila maestre precarie chiamate ad insegnare nelle nostre scuole dell'infanzia e della primaria: a seguito di una sentenza dal vago sapore politico, ora sono a rischio licenziamento perché vengono tirate fuori dalle Graduatorie ad esaurimento e a breve non potranno nemmeno fare più supplenze annuali, visto che con la riforma, la Legge 107/2015, è stato deciso di espellerle anziché assumerle come dice da tempo l’UE, alla pari di tutto coloro che hanno superato i 36 mesi di precariato. Lo stesso vale per tutte le docenti di altri ordini scolastici o che hanno svolto un altro percorso formativo, ad esempio attraverso i corsi Tfa o di Scienze della formazione primaria.
Sottopagata, precaria, trasferita d’ufficio e con pochissime chances di potere intraprendere un minimo di carriera: è questo il profilo che in Italia caratterizza un’alta percentuale delle oltre 600mila insegnanti e delle circa 150mila donne che operano nella scuola come assistenti amministrative, tecniche o come collaboratrici scolastiche. La mancanza di tutele per le quote “rosa” nei nostri istituti scolastici riguarda un numero di lavoratrici percentualmente più alto di qualsiasi altro comparto pubblico: sfiora, infatti, l’82%. Significa che in media, all’interno di ogni scuola autonoma, quattro insegnanti su cinque in servizio sono donne. Poi ci sono tre Ata donne su quattro. E anche sei dirigenti scolastici su dieci appartengono al sesso femminile.
Si tratta di una peculiarità tutta italiana: in Europa, solo l’Ungheria ha più donne in cattedra (82,5%); in Spagna le insegnanti si fermano al 63%, negli Stati Uniti al 74%. Nel Belpaese, invece, a livello di scuola dell’infanzia le docenti costituiscono il 99,3% dell’organico, mentre gli uomini sono appena 590 su oltre 93mila (uno ogni 153 maestre!). Nella scuola primaria, alle maestre sono affidate il 96% delle cattedre (in Spagna il 75%, nel Regno Unito l’81%, in Francia l’82%), lasciando ai colleghi maschi appena 8.193 posti su 224.124. Anche alle superiori la presenza “rosa” tra i docenti fa riscuotere percentuali altissime: si scende sì al 65%, ma il numero è molto più alto che altrove. In Germania, ad esempio, dopo le scuole medie si riscontrano solo il 46% di docenti donne.
A questa alta presenza, tuttavia, non corrisponde una valorizzazione professionale. Anzi, si può parlare di un assetto lavorativo particolarmente difficile: le lavoratrici della scuola, infatti, risultano fortemente discriminate nello svolgimento dell’occupazione, del rapporto con l’amministrazione pubblica per la quale operano, con riflessi negativi anche nella tutela della propria vita familiare.
“Stiamo parlando – spiega Marcello Pacifico, presidente nazionale Anief e segretario confederale Cisal – di stipendi ridotti, molto lontani dell'inflazione registrata negli ultimi dieci anni, di forti vincoli sulla mobilità, di una lunga precarietà che precede l'assunzione a tempo indeterminato, di un allungamento di un decennio dell'età pensionabile spostata in avanti fino alla soglia dei 70 anni: le condizioni di lavoro delle donne italiane che hanno scelto il comparto e l'area dell'istruzione devono fare riflettere. E pensare che agli occhi dell’opinione pubblica queste lavoratrici sono considerate fortunate”.
“L’emblema del trattamento iniquo a cui sono sottoposte le donne nella scuola – continua il sindacalista Anief-Cisal - è rappresentato dalla recente vicenda delle 50mila maestre precarie chiamate ad insegnare nelle nostre scuole dell'infanzia e della primaria. Dopo avere insegnato per anni e anni, a seguito di una sentenza ora sono a rischio licenziamento perché vengono tirate fuori dalle Graduatorie ad esaurimento e a breve non potranno nemmeno fare più supplenze annuali, visto che con la riforma, la Legge 107/2015, è stato deciso di espellerle anziché assumerle a tempo indeterminato come dice da tempo l’Unione Europea, alla pari di tutto coloro che hanno superato i 36 mesi di precariato. Lo stesso vale per tutte le docenti di altri ordini scolastici o che hanno svolto un altro percorso formativo, ad esempio attraverso i corsi Tfa o di Scienze della formazione primaria”.
La mancata considerazione per il corpo insegnante parte dagli stipendi ridotti all’osso: oggi una donna che insegna in Italia guadagna tra i 24mila e i 38mila euro. Se si considerano anche gli Ata, il compenso annuo medio - complice il blocco quasi decennale e l’inflazione salita a doppia cifra – è sceso a poco più di 28mila euro annui medi, che fanno vestire alla Scuola la maglia nera degli stipendi di tutta la Pubblica Amministrazione. Basta ricordare che un collaboratore scolastico ad inizio carriera percepisce appena mille euro al mese. E gli aumenti-miseria e gli arretrati insignificanti sottoscritti con l’intesa all’Aran del 9 febbraio scorso,hanno rappresentato una goccia nel mare.
La stima di quanto abbia una dipendente pubblica è tutta nello studio presentato in questi giorni dalla Cgia di Mestre, secondo cui “dal 2010 fino alla fine del 2017, prima delle recenti tornate di rinnovi, le retribuzioni medie annue lorde dei dipendenti privati si sono quasi allineate a quelle del pubblico impiego. Nulla a che vedere con quanto accadeva nel 2010 (anno in cui iniziò il blocco); allora lo scarto annuo, a vantaggio degli statali, era di 4.244 euro”. Il problema è anche quello dalla mancata crescita professionale, visto che quasi sempre una dipendente della scuola va in pensione con lo stesso profilo professionale con cui è entrata decenni prima.
Le nostre insegnanti arrivano a percepire molto meno anche rispetto alle colleghe spagnole, i cui compensi annui si collocano tra i 32mila e i 45mila euro lordi l'anno; le tedesche addirittura tra i 46mila e i 64mila euro. Tra l’altro, dopo una attesa lunghissima per l’assunzione in ruolo, che arriva molto spesso non prima dei 40 anni, con diversi casi anche dopo i 50 e in alcuni pure oltre i 60 anni di età. Non è un problema di competenze, perché queste donne nel frattempo hanno vinto concorsi, si sono abilitate e specializzate. Inoltre, andando oltre la scuola, le donne lavoratrici laureate italiane sono 3,5 milioni, mentre gli uomini si fermano a quota 2,9 milioni. Solo che poi, i numeri si invertono quando si fanno i resoconti su diritti, stipendi e dati sulla disoccupazione.
PER APPROFONDIMENTI:
SCUOLA – Rinnovo del contratto, non si possono aumentare gli stipendi con le ‘partite di giro’
SCUOLA – Firmato da Cgil, Cisl e Uil il contratto della vergogna
Contratto, gli aumenti reali netti sono ridicoli: tra i 37 e i 52 euro