Nel documento annuale dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico si raccomanda di creare le condizioni che permettano veramente di richiamare insegnanti qualificati e efficaci nelle scuole più “difficili” e di aumentare, in parallelo, le responsabilità dei capi di istituto, “che possono svolgere, se preparati per questo compito, un ruolo importante per attrarre, accompagnare, e formare docenti che rispondono alle esigenze della realtà educativa locale”. L’Ocse ha anche rilevato che nella metà dei 69 Paesi ed economie esaminati, gli insegnanti delle scuole con un’alta concentrazione di studenti svantaggiati tendono ad avere qualifiche o credenziali inferiori rispetto agli insegnanti delle scuole più avvantaggiate. In Italia, inoltre, la mancata valorizzazione del personale passa anche per gli stipendi inadeguati: nell’Ue solo i docenti della Slovacchia e della Grecia percepiscono buste paga inferiori a quelle dei nostri docenti. Il problema è, soprattutto, quello del mancato adeguamento stipendiale nel corso della carriera.
Marcello Pacifico (Anief-Cisal): Se non si investe in istruzione si pregiudica la crescita culturale dei cittadini e del Paese. È esemplare, anche, che ad essere penalizzate di più risultano le regioni e i territori più svantaggiati. Ma anche le scuole con alunni più “difficili”. Dove sono concentrati anche i precari e gli insegnanti con minore esperienza. Andando a creare un ulteriore danno nei loro confronti. In pratica, ai ragazzi già penalizzati dalla deprivazione culturale del luogo di appartenenza si aggiunge quella dell’assegnazione di insegnanti con minore anzianità professionale. In assoluto, l’Italia rimane uno dei Paesi dove l’insegnamento viene considerata una professione qualsiasi. È una vergogna nazionale, di cui i governi degli ultimi anni si devono assumere la responsabilità. Cogliamo l’occasione, visto che siamo all’inizio di una nuova legislatura, per chiedere di cambiare corso. Non solo a parole.
Investire sugli insegnanti significa avere dei cittadini migliori: lo ricorda il rapporto annuale dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico che è andata ad analizzare i dati di 69 Paesi che hanno partecipato all’indagine OCSE-PISA 2015 al fine di individuare le più efficaci politiche per l’insegnamento. Ne è scaturito un quadro lapalissiano, in contrasto con quello che molti governanti non sembrano volere comprendere: “più gli insegnanti sono pagati e preparati, più gli studenti hanno possibilità di riuscire nella vita”, sintetizza la rivista Orizzonte Scuola, che ha realizzato una sintesi del Rapporto.
Si legge nel rapporto: “Non dovrebbe quindi sorprendere che i responsabili politici di tutto il mondo abbiano dedicato negli ultimi anni sempre maggiore attenzione a riformare la professione docente, in uno sforzo di miglioramento dell’apprendimento degli studenti e per rendere l’istruzione più equa e inclusiva”. Nel documento si raccomanda, quindi, di creare le condizioni che permettano veramente di richiamare insegnanti qualificati e efficaci nelle scuole più “difficili”; e di aumentare, in parallelo, le responsabilità dei capi di istituto, “che possono svolgere, se preparati per questo compito, un ruolo importante per attrarre, accompagnare, e formare docenti che rispondono alle esigenze della realtà educativa locale”.
È inoltre emerso che in circa la metà dei 69 Paesi ed economie esaminati, gli insegnanti delle scuole con un’alta concentrazione di studenti svantaggiati tendono ad avere qualifiche o credenziali inferiori rispetto agli insegnanti delle scuole più avvantaggiate. E nei sistemi educativi in cui ciò viene osservato – tra cui Francia, Italia, Paesi Bassi, il sistema scolastico pubblico degli Stati Uniti – il divario nel rendimento degli studenti in relazione allo status socio-economico tende ad essere più ampio che in Paesi come Canada, Finlandia, Giappone o Corea, dove le qualifiche, le credenziali e l’esperienza degli insegnanti sono più equilibrate tra le scuole.
C’è anche un altro dato dell’Ocse molto indicativo: gli insegnanti precari sono concentrati nelle scuole svantaggiate dal punto di vista socio-economico. E che “anzianità di servizio e stabilità dei docenti nella scuola procurano benefici agli studenti”. Accade anche in Italia, dove “le scuole superiori con una maggiore concentrazione di studenti svantaggiati tendono ad avere una percentuale minore (83%) di insegnanti in possesso di abilitazione, rispetto alle scuole superiori più avvantaggiate da un punto di vista socio-economico (97%). Le scuole più svantaggiate sono quelle il cui livello socio-economico medio è tra i più bassi del Paese e che insieme rappresentano il 25% degli studenti; le scuole più avvantaggiate rappresentano un numero di studenti equivalente, ma hanno livelli medi di status socio-economico tra i più alti del Paese”.
Nelle scuole più svantaggiate, tra i fattori che incidono sull’offerta formativa, gli insegnanti lamentano più spesso una carenza di docenti (il 24% dei docenti lo ritiene un fattore rilevante, contro il 17% dei docenti nelle scuole più avvantaggiate). Le scuole più penalizzate avevano, nel 2015, una maggiore presenza di insegnanti precari (con contratti di durata inferiore all’anno): 26% tra gli insegnanti di scienze e 21% tra gli insegnanti restanti (contro il 12% e l’8%, rispettivamente, nelle scuole più avvantaggiate). In generale, l’anzianità in servizio per gli insegnanti delle scuole più svantaggiate è minore che per quelli delle scuole più avvantaggiate, ma soprattutto, la permanenza all’interno della stessa scuola è minore. Infine il rapporto evidenzia che le scuole sfavorite concentrano un numero maggiore di insegnanti con meno di 5 anni di esperienza – l’8% tra gli insegnanti di scienze, contro il 3% nelle scuole più svantaggiate.
Anief ritiene quanto emerso dal Rapporto davvero importante. “È la conferma di quanto sosteniamo da tempo – dice Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario confederale Cisal – perché se non si investe in istruzione si pregiudica la crescita culturale dei cittadini e del Paese. È esemplare, anche, che ad essere penalizzate di più risultano le regioni e i territori più svantaggiati. Ma anche le scuole con alunni più “difficili”. Dove sono concentrati anche i precari e gli insegnanti con minore esperienza. Andando a creare un ulteriore danno nei loro confronti. In pratica, ai ragazzi già penalizzati dalla deprivazione culturale del luogo di appartenenza si aggiunge quella dell’assegnazione di insegnanti con minore anzianità professionale”.
In Italia, inoltre, la mancata valorizzazione del personale passa anche per gli stipendi inadeguati. In Europa, solo i docenti della Slovacchia e della Grecia percepiscono buste paga inferiori a quelle dei nostri docenti. Il problema è, soprattutto, quello del mancato adeguamento stipendiale nel corso della carriera: in Francia, ad esempio, i maestri della primaria appena assunti percepiscono più o meno quanto i colleghi italiani (tra le 22mila e le 23mila euro lorde); solo che al termine della carriera, gli stessi docenti transalpini surclassano i nostri, prendendo oltre 10mila euro in più (oltre 44.500 euro contro 33.700 euro lordi).
Non va meglio per un insegnante del Belpaese che opera nella secondaria di secondo grado: questi, infatti, potrà contare su stipendi massimi di 38.745 euro, mentre chi svolge la stessa professione in Germania sfiora i 64mila euro. E pure in Spagna, dove l’economia non è di certo più florida di quella italiana, arriva a 48mila euro, quindi 10mila in più dei nostri docenti delle superiori, mentre i docenti del Belgio (63mila euro) e dell’Austria superano i 65mila euro annui. Per non parlare di chi insegna a Lussemburgo, dove, sempre nella secondaria di secondo grado, si arriva a percepire 125mila euro medi. E il quadro non è certo cambiato con l’adeguamento in arrivo in questo mese che lascerà comunque i compensi dei docenti più di 8 punti percentuali sotto l’inflazione.
Anche l’ultimo rapporto annuale Eurydice è impietoso e ha messo a confronto gli stipendi degli insegnanti e dei capi di istituto di 40 Paesi europei: in Germania, i 16 Länder stabiliscono gli stipendi dei dipendenti pubblici e li incrementano regolarmente per compensare l’inflazione; in Danimarca, il contratto generale del 2015 prevede aumenti salariali e indennità aggiuntive per gli insegnanti di tutti i livelli; in Spagna, la legge finanziaria del 2016 ha stabilito un aumento dell’1% degli stipendi di tutti i dipendenti pubblici, compresi gli insegnanti, con effetto dal 1 gennaio 2016; anche nei Paesi Bassi, una recente riforma del governo sugli stipendi ha previsto un aumento generale delle remunerazioni per tutti i dipendenti pubblici; in Portogallo, nel 2015, il governo ha revocato i tagli degli stipendi approvati l’anno prima.
“In assoluto – continua Pacifico – l’Italia rimane uno dei Paesi dove l’insegnamento viene considerata una professione qualsiasi. È una vergogna nazionale, di cui i governi degli ultimi anni si devono assumere la responsabilità. Tutti, nessuno escluso, ad inizio di mandato hanno fatto a gara per dire che l’investimento nell’istruzione rispetto al Pil va incrementato e che è vitale per il bene del Paese. Tuttavia, quando si è trattato di approvare le leggi di bilancio, la scuola è stata sempre collocata nelle voci da tagliare o, nel migliore delle ipotesi, da lasciare in pareggio. Cogliamo l’occasione, visto che siamo all’inizio di una nuova legislatura, per chiedere di cambiare corso. Non solo a parole”.
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