Il nuovo reclutamento del personale docente e Ata della scuola passa per il modello trentino, quindi per i concorsi pubblici che diverrebbero regionali. Una filosofia “a tutto tondo” che riguarderebbe addirittura i contenuti didattici, più incentrati su discipline prettamente locali. Si ragiona come se la scuola pubblica italiana non fosse costituzionalmente un’entità nazionale, ma bensì territoriale. Il sindacato, però, ricorda che nell’ambito del processo di attribuzione delle competenze relative alle norme generali sull’istruzione bisogna tenere conto del rispetto degli articoli 3, 4, 16, 51, 97 della Costituzione, come ribadito dalla stessa Consulta in tema di reclutamento degli insegnanti, residenza professionale e servizi legati ai soli residenti. Marcello Pacifico, presidente nazionale Anief, si dice “pronto ad impugnare qualsiasi norma che impedisca al personale della scuola la mobilità lavorativa in tutto il territorio nazionale”.
Non è più solo un’idea: alcune regioni del Nord, in particolare Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, puntano ad ottenere sempre maggiori forme e condizioni di autonomia amministrativa e legislativa su temi quali lavoro, istruzione, salute, tutela dell’ambiente e dell’ecosistema e di governo del territorio. Ma a fare da apripista, per le regioni a statuto non speciale, è soprattutto il Veneto, a favore del quale già lunedì prossimo, 22 ottobre, il Consiglio dei Ministri potrebbe varare il disegno di legge sull’autonomia. E non è un caso il fatto che in questi giorni il Ministro dell’Istruzione abbia sottoscritto, a nome del Miur, un accordo che preveda l’introduzione della cultura e della storia veneta valido per l’intera regione. Secondo gli addetti ai lavori, si tratta di un precedente da non sottovalutare, perché l’idea di fondo rimane quella di “lanciare l’idea di un’autonomia regionale più ampia”, scrive Orizzonte Scuola.
Si ragiona, insomma, come se la scuola pubblica italiana non fosse costituzionalmente un’entità nazionale, ma bensì territoriale. Ma a quella che sembrerebbe una fuga in avanti regionale, in realtà va aggiunto anche un tentativo ben più autorevole, portato avanti dal Governo in carica: perché all’interno del Documento di Economi e Finanza, preludio della manovra economica 2019, è presente, nero su bianco, la volontà di introdurre la cosiddetta “Autonomia differenziata”, sulla falsa riga di ciò che stanno tentando di portare avanti le giunte Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna, la quale darebbe attuazione all’articolo 116/3 della nostra Costituzione che riguarda proprio l’attribuzione di forme e condizioni particolari di autonomia alle Regioni a statuto ordinario.
In base a tale norma, è previsto che “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell'articolo 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all'organizzazione della giustizia di pace, n) e s), possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei princìpi di cui all'articolo 119. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata”.
Appare ovvio, tuttavia, che se nel corso di diversi decenni tale norma non è mai stata adottata nella sostanza un motivo dovrà pur esserci. E chi ci ha provato è stato sistematicamente stoppato nelle aule di giustizia. Con le sentenze n. 242/2011 della Consulta e della 107/2018, i giudici hanno messo un bel disco rosso, ad esempio, alle norme della provincia autonoma di Trento, in particolare all’art. 92, c. 2bis, legge 5/2006 sull’inserimento in coda del personale iscritto in graduatorie diverse da quelle provinciali trentine e del super servizio attribuito al servizio prestato nelle scuole trentine o ancora alla precedenza di accesso agli asili nido riservata ai residenti o lavoratori per almeno 15 anni nella regione Veneto.
Queste espressioni provenienti dalle aule di giustizia, che non lasciano spazio ad interpretazioni alternative sull’imprescindibilità dell’unità nazionale del sistema pubblico italiano e dell’organizzazione che ne deriva, compreso il reclutamento del personale, portano l’ufficio legale del sindacato Anief a ritenere incostituzionale una prospettiva che, anche attraverso un apposito disegno di legge presentato dalla Lega al Senato, introduce il domicilio professionale o ancora il divieto di trasferimento nella mobilità (probabilmente per almeno 5 anni) del personale assunto nella scuola. Difatti, tale norma violerebbe gli art. 3, sulla parità di trattamento e sull’uguaglianza sostanziale, 4 sulla promozione delle condizioni per la ricerca del lavoro, 16 sulla libera circolazione, 51 e 97 sul merito e il buon andamento della Pubblica Amministrazione.
Sulla base di tali premesse, Marcello Pacifico, presidente nazionale Anief, si dice “pronto ad impugnare qualsiasi norma che impedisca al personale della scuola la mobilità lavorativa in tutto il territorio nazionale: noi lo diciamo da tempo e lo ribadiamo ora, prima che l’idea si traduca in legge. Chiunque voglia trasformare la scuola, i suoi programmi e chi vi opera, in un ‘affare locale’, verrà portato nelle aule di giustizia per rendere conto di tale iniziativa incostituzionale e priva di quel senso dell’unità nazionale che ha da sempre caratterizzato l’istruzione pubblica italiana”.
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