Gli ultimi report nazionali ci dicono che negli istituti di periferia sono concentrati gli allievi non abbienti, ma anche gli insegnanti più giovani e con meno esperienza, i quali lasciano più in fretta l'istituto assegnato: la mancata continuità didattica è una condizione che pesa sulle già basse possibilità che un giovane proveniente da una famiglia “difficile” ha di elevarsi culturalmente ai livelli massimi. Una condizione che parte dalla modesta percentuale di investimenti realizzati per l’istruzione pubblica rispetto al Pil e che costringe il Miur e gli Uffici scolastici a risparmiare su tutto, anche su organici e immissioni in ruolo. Secondo Marcello Pacifico, presidente nazionale Anief, il vero problema è che nel nostro Paese la scuola e l’istruzione in generale continuano ad essere considerati come un costo piuttosto che come un investimento che alla lunga paga.
Gli insegnanti precari si concentrano soprattutto nelle scuole periferiche e frequentate da studenti che provengono da famiglie non abbienti o “difficili”. Lo spiacevole fenomeno dell’alternarsi dei docenti concorre al ridotto successo degli studenti più svantaggiati: appena il 12 per cento di loro entra infatti nel novero dei "più bravi". Il dato è contenuto nel nuovo rapporto sulle disuguaglianze a scuola redatto dall'Ocse "Equity in education" e commentato in queste ore da La Repubblica che sottolinea come l'ascensore sociale sia praticamente fermo se non addirittura orientato all’indietro. Con gli svantaggi scolastici che iniziano a manifestarsi alla fine della scuola primaria.
Lo studio ha evidenziato che in Italia “la metà degli studenti meno abbienti frequenta il 25 per cento delle scuole più svantaggiate del Paese, ancora. Solo il 6 per cento viene iscritto negli istituti prestigiosi”. E “solo il nove per cento dei 25-64enni i cui genitori non hanno raggiunto il livello d'istruzione secondario superiore ha completato gli studi a livello terziario (la media Ocse è del 21 per cento). La percentuale sale al 59 per cento (cinque volte tanto) tra coloro con almeno un genitore con un'istruzione secondaria superiore e addirittura all'87 per cento tra coloro che hanno un genitore laureato”.
Ma è sul secondo ciclo di studi che i danni dell’eccesso di precarietà e di mancata formazione dei supplenti hanno più ripercussioni sugli allievi meno fortunati: “le scuole superiori con una maggiore concentrazione di studenti svantaggiati – sottolinea il quotidiano romano - tendono ad avere una percentuale minore di insegnanti abilitati (83 per cento contro il 97). Le scuole difficili e periferiche, nel 2015, avevano più insegnanti precari: 26 per cento tra i docenti di scienze, per esempio, contro il 12 per cento degli istituti blasonati. In generale, nelle scuole di periferie vi sono insegnanti più giovani (meno esperienza) che lasciano più in fretta l'istituto assegnato”.
Secondo Anief, questa è la dimostrazione ulteriore del danno enorme che lo Stato produce nel lasciare una fetta esagerata di personale nel limbo del precariato forzato per anni, se non per decenni. “Anziché farsi carico del problema della supplentite cronica– ricorda Marcello Pacifico, presidente nazionale del giovane sindacato – i governi fanno a gara per fare approvare una riforma che superi la precedente, ma con effetti tutt’altro che risolutori. Quello che sta accadendo in questi mesi è l’emblema del sistema distorto: abbiamo oltre 100 mila docenti abilitati e altrettanti posti liberi, ma non riusciamo a fare una seria ricognizione dei fabbisogni. Così decine di migliaia dei candidati rimangono senza lavoro, mentre le cattedre vengono affidate a supplenti senza abilitazione”.
“Nel frattempo – continua il sindacalista Anief – il numero di precari si allunga, perché nel frattempo si organizzano nuovi concorsi per selezionare chi già è stato scelto e formato in passato. E mentre il tempo passa, la qualità dell’istruzione si riduce, perché i precari sono costretti a girovagare di scuola in scuola. Mentre sarebbe bastato assumerli dalle stesse graduatorie ad esaurimento, le GaE, utilizzate efficacemente fino a qualche anno fa e che invece anche l’attuale esecutivo si ostina a tenere chiuse benché non vi siano più candidati e i nuovi vincitori di concorso arriveranno non prima di un biennio”.
Il motivo di questo comportamento è però a monte: va ricercato nella modesta percentuale di investimenti realizzati per l’istruzione pubblica rispetto al Prodotto interno lordo. Una condizione che costringe il Miur e gli Uffici scolastici a risparmiare su tutto, ad iniziare dagli organici. È di questi giorni la notizia che nel Documento Programmatico di Bilancio 2019 consegnato all’Unione Europea è previsto che la spesa nazionale nel 2019 scenderà al 3,5%, dopo che si era attestata sul 3,6% nel quinquennio 2014-2018: la riduzione dello 0,1% fa ancora più scalpore se si pensa che la media europea di investimenti è quasi di un punto superiore e si colloca a meno della metà di quanto investito da Danimarca (7%), Svezia (6,5%) e Belgio (6,4%).
“Il vero problema è che nel nostro Paese la scuola e l’istruzione in generale continuano ad essere considerati come un costo, piuttosto che come un investimento che alla lunga paga. Tanto è vero che, tranne nel primo ciclo, le famiglie sono costrette ogni anno a spendere cifre considerevoli per comprare libri e corredo scolastico. Ben prima dei 16 anni, quindi della scuola dell’obbligo. La distonia è evidente: un giovane è obbligato, giustamente, ad andare a scuola, ma poi si deve arrangiare da solo. Anche quando non ha i mezzi per frequentarla. Come se non bastasse, ogni anno gli si cambia il corpo docente, perché non si vuole stabilizzarlo. E poi ci si lamenta se il numero di abbandono precoci è troppo alto: alle superiori non arriva al diploma un iscritto su quattro, abbiamo la metà dei laureati degli altri Paesi europei, un giovane su 4 che non studia e non lavora”, conclude Pacifico.
È chiaro che occorre un’inversione di tendenza. Già dalla Legge di Bilancio. A sostenerlo, qualche settimana fa, è stato l’on. Luigi Gallo (M5S), presidente della VII Commissione Cultura della Camera che dopo avere ricordato che “gli investimenti in istruzione e cultura sono fondamentali” ha fatto sapere che in “Parlamento con le commissioni Cultura di Camera e Senato abbiamo chiesto che in legge di bilancio ogni risorsa e ogni spreco risparmiato dai ministeri competenti siano reinvestiti sempre in Istruzione e Cultura, perchè in Europa siamo ultimi in investimenti in Cultura e terz’ultimi in investimenti in Istruzione. Cultura e Istruzione generano lo sviluppo dell’immediato futuro”. La speranza è che a breve si passi ai fatti, perché nel frattempo gli studenti che hanno più bisogno rimangono sempre più indietro.
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