Rassegna stampa

Recensioni dalla Stampa al 1 febbraio 2013

Avvenire – 26/01/2013
“I nuovi analfabeti, ignoranti di ritorno”
░ Intervista a Arturo Allega, studioso italo americano, docente di fisica, dirigente scolastico; si occupa di modelli e tecniche didattiche, autore di “Analfabetismo. Il punto di non ritorno” (Herald Editore).
…Risulta non solo che una buona fetta della popolazione non è in linea con gli attuali limiti dell’obbligo scolastico, ma che c’è anche, a partire dal 2001, una crescita esponenziale degli analfabeti di ritorno al punto da dire con «precisione matematica» che oggi i non istruiti sono più degli istruiti. …«Se dopo aver conseguito un titolo di studio un individuo non continua ad esercitare e aggiornare le conoscenze apprese, succede che finisce per perderle…. I dati dal 1971 al 2011 dicono che la popolazione con un livello di cultura non più sufficiente è ormai il 70% del totale. Ho misurato anche la velocità con la quale crescono le due popolazioni e ho scoperto che il boom di crescita dei non istruiti si è avuto a partire dal 2001. In sostanza dal 1981 al 2001 sono cresciuti del 4%, ma dal 2001 al 2011 sono cresciuti del 16%. Al contempo gli istruiti, che dal dopoguerra erano sempre cresciuti, dal 2001 sono diminuiti del 6% fino al punto che nel 2006 i non istruiti hanno superato gli istruiti crescendo poi in maniera esponenziale… La prima delle quattro date che secondo me hanno rivoluzionato il mondo la indico nel 1985, anno della comparsa di <+corsivo>Explorer<+tondo> e quindi del web. Così come quella del 2001 coincide con l’esplosione della diffusione delle tecnologie digitali. Si può anche pensare che stia nascendo un nuovo alfabeto e che quel 70% non sia composto da "nuovi barbari", ma da "nuovi alfabeti". Nei fatti, però, ci troviamo in un mondo del tutto nuovo in cui il successo sociale ed economico, così come propagandato dai media tradizionali e da internet, appare slegato dalle capacità culturali dell’individuo. Si assiste all’arroganza del self made man orgoglioso di essere senza studi. La scuola è impreparata. E mi viene da pensare che la società democratica rischia, su questa strada, di diventare più manovrabile e fragile».

Il Messaggero – 28/01/2013
“Corsi di sostegno per chi ha difficoltà”
░ … e «sì al diploma a 18 anni»; lo dice Giuseppe Bertagna, già presidente del GdL dei consulenti dell’ex ministro Moratti, nella fase di preparazione della riforma, direttore del Dipartimento di scienze umane e sociali dell’università di Bergamo. Ne riportiamo le parole.
Io sono stato uno dei primi a proporre l’uscita a 18 anni. Oggi si può tornare a parlarne ma a due condizioni precise. La prima prevede una seria verifica nell’ingresso all’università, con esami selettivi e in grado di preparare al meglio i ragazzi. La seconda si poggia su una riorganizzazione dell’istruzione e della formazione professionale superiore. Dovrebbe essere concorrenziale con l’università… Le risorse recuperate dall’anticipo del diploma devono essere utilizzate per organizzare corsi annuali ad hoc per gli studenti che sono in difficoltà, corsi in grado di riportarli al pari degli altri e di ri-orientarli. E’ necessaria una secondaria di quattro anni che comprenda percorsi di liceo e di istruzione e formazione professionale…. E’ necessario riorganizzare il nostro sistema scolastico per livelli, per compiti, per problemi. Usando strutture e forme molto più flessibili rispetto a quelle che ingessano ora la scuola e creano dispersione. Il nostro obiettivo deve essere quello di innalzare il livello culturale e professionale di tutti i ragazzi. Portarli tutti a un titolo di studio superiore. Questo vuol dire che dopo i 18 anni i giovani devono o andare all’università o proseguire con studi professionali superiori.

www.lastampa.it – 28/01/2013
“L’Italia migliora ma non prepara al mondo reale”
░ E’ la valutazione espressa dal direttore del programma Ocse-Pisa Andreas Schleicher, esperto sui sistemi scolastici internazionali.
Non boccia la scuola italiana perché, pur restando sotto la media, fa progressi in termini di efficienza e svecchiamento. Certo, il limite principale è sotto gli occhi di tutti: «Il fatto che tanti laureati non trovino lavoro e tanti imprenditori non trovino personale: la spiegazione è che la scuola non prepara al mondo reale». In un secolo è cambiato il modo d’intendere l’istruzione. «Prima era un processo di selezione - spiega Schleicher - l’economia aveva bisogno di poche persone benissimo istruite e tanti con livello e medio basso». In passato, poi, i contenuti erano validi per tutta la vita, ora cambiano continuamente. Quali sono, quindi, gli ingredienti nuovi da prendere qua e là dai sistemi migliori del mondo? «Prima di tutto il valore che la società dà all’istruzione, quanto la ritiene centrale e meritevole di risorse»…. Un altro ingrediente è la capacità di attrarre i migliori insegnanti: «In Finlandia quello dell’insegnante è il secondo mestiere più ambito dai migliori laureati, e non per lo stipendio; attrae intellettualmente, perché assicura un ruolo attivo». Il terzo elemento è l’investire risorse là dove possono fare la differenza, … Gli ultimi ingredienti sono la coerenza e la capacità di disegnare progetti a lungo termine….

ItaliaOggi – 29/01/2013
“Il decreto, atto controproducente. Serve un regolamento”
░ Si tratta del ventilato decreto sulle nuove classi di concorso; riduce da 122 a 56 le aree disciplinari. Da oltre due anni il MIUR lavora alla nuova tabella delle classi di concorso e dei posti di insegnamento, ai fini della “razionalizzazione” (i.e., allo scopo di consentire ai dirigenti di modulare le nomine ai singoli docenti in un ambito il più ampio possibile di discipline e attività) ridefinendo le singole classi. Secondo il qualificato parere di Carlo Forte, il decreto sarebbe facile bersaglio di ricorsi: potrebbe essere annullabile per violazione di legge e carenza di competenza avendo il MIUR l’intenzione di agire per decreto e non con regolamento.
Al ministero dell'istruzione rischiano di fare una fatica inutile. Il decreto sulle nuove classi di concorso, che il ministero vorrebbe varare, presenta alcuni punti deboli che potrebbero renderlo facilmente annullabile. E ciò potrebbe fare la fortuna dei ricorsifici. Anche perché il bacino di utenza dei potenziali ricorrenti comprende, praticamente, tutti i docenti della scuola secondaria di I e II grado. L'amministrazione, infatti, punta a riformare completamente l'impianto delle classi di concorso. E cioè dei gruppi di discipline che vengono insegnate dai diversi docenti che lavorano nelle scuole secondarie, a seconda della specialità di cui sono titolari. Per esempio, il professore di lettere di scuola media è abilitato nella classe di concorso A043, che comprende le seguenti discipline: italiano, storia, geografia ed educazione civica. Si tratta, dunque, di un tema sensibile. Perché dalla composizione delle classi di concorso deriva la possibilità di impiego dei docenti. E quindi, i diretti interessati hanno ragione di essere preoccupati. Perché a seconda di come verranno ridisegnate le classi di concorso cambierà anche la struttura degli organici. E con essi anche la composizione delle cattedre. É ragionevole ritenere, dunque, che chi si riterrà leso dai nuovi assetti disegnati dall'amministrazione valuterà, necessariamente, la possibilità di difendersi davanti ai giudici. Nel caso specifico, il rimedio più efficace potrebbe essere quello del ricorso al Tar del Lazio. Ed è qui che vengono in rilievo i punti deboli del decreto, sui quali potrebbero appuntarsi i motivi dei ricorsi e un'eventuale sentenza di annullamento da parte del Tar. Il punto più esposto del provvedimento è il metodo utilizzato dall'amministrazione. Il ministero, infatti, ha deciso di agire per decreto, appoggiandosi su una vecchia norma contenuta nel testo unico del '94: l'articolo 405. La normativa più recente, invece, prevede che la «razionalizzazione e l'accorpamento delle classi di concorso, per una maggiore flessibilità nell'impiego dei docenti» non può essere operata con un semplice decreto. Lo strumento previsto dall'articolo 64 del decreto legge 95/2012 in questa materia, infatti, è il regolamento. Che deve essere adottato tramite un decreto del presidente della repubblica e prevede un iter complesso, che comprende anche il parere obbligatorio delle commissioni parlamentari. I giuristi chiamano questo metodo di formazione dei provvedimenti «riserva di regolamento». E siccome il ministero intende agire per decreto, bypassando proprio la riserva di regolamento prevista dall'art. 64, il decreto potrebbe essere annullabile per violazione di legge e carenza di competenza. Tanto più che la tesi della riserva di regolamento è confortata da ulteriori elementi. Anzi tutto dal principio di specialità. L'art. 405 del testo unico, infatti, è una norma generale. Che prevede la facoltà dell'amministrazione di rimettere mano alle classi di concorso quando è necessario. Ma l'art. 64 del d.l. 95/2012 è una norma speciale (se non addirittura eccezionale) che introduce una deroga per un'ipotesi particolare. E cioè la necessità di procedere con regolamento, per razionalizzare e accorpare le classi di concorso e consentire un maggiore impiego dei docenti per riassorbire gli esuberi strutturali dovuti ai tagli. Oltre tutto, quand'anche si volesse ritenere l'art. 405 alla stregua di norma di pari grado, comunque avrebbe prevalenza l'art. 64 perché è più recente. L'amministrazione ha ritenuto di poter bypassare la riserva di regolamento affermando, nella motivazione del provvedimento, che «gli interventi di razionalizzazione delle risorse umane ivi previsti sono stati altrimenti realizzati». Ma potrebbe non bastare. Prima di tutto perché l'art.64 prevede che anche l'accorpamento delle classi di concorso vada fatta con regolamento (e non per decreto). E poi perché la razionalizzazione operata dall'art. 14. comma 17 del d.l.95/2012, non ha interessato le classi di concorso, ma le utilizzazioni dei docenti in esubero.

ItaliaOggi – 29/01/2013
“Nuove classi nelle sabbie mobili”
░ Ancora in tema di riforma delle classi di concorso. Alessandra Ricciardi spiega gli ostacoli che si frappongono ad un iter celere per il provvedimento.
Meno di un mese alle elezioni. Molto meno di due all'insediamento del nuovo governo. L'opera di rallentamento intanto prosegue, ieri nuovo vertice, e scontro, tra sindacati e ministero. La riforma delle classi di concorso rischia così di non venire fuori dalle sabbie mobile di questa fine legislatura, a dispetto della volontà del ministro, Francesco Profumo, di poche settimane fa. I vertici ministeriali hanno concesso di procedere con gruppi tecnici ad hoc su aree disciplinari omogenee, dovrebbero essere 4 o 5, per superare le criticità. Ma intanto i sindacati non nascondo come la riforma proposta sia molto politica, e dunque meglio aspettare un ministro con pieni poteri. Il provvedimento consentirebbe di ridurre le classi di concorso, ovvero gli ambiti delle discipline che insegnano i singoli prof, per i quali dunque sono formati, reclutati, assegnati alle cattedre, trasferiti e sostituiti, da 122 a 56, di cui 6 sono di nuova istituzioni (danza classica, moderna, logistica, calzature, sostegno per secondaria di primo e secondo grado). I docenti tecnico-pratici erano 55 diventano 26, di cui una classe di nuova istituzione. Obiettivo dell'accorpamento proposto dal ministero attraverso decreto (proprio per riuscire a fare prima, evitando il parere delle commissioni parlamentari) è di evitare l'eccessiva parcellizzazione degli organici, dare maggiore flessibilità ai docenti, rivedere la formazione universitaria. Ma nelle pieghe del decreto, e soprattutto delle tabelle di confluenze delle vecchie classi nelle nuove maxi classi di concorso, i sindacati hanno riscontrato più di una mancanza o di un errore. E soprattutto il venire meno di tutele per gli abilitati delle vecchie classi di concorso. …

Il Messaggero – 30/01/2013
“Lezioni anche d’estate, scuola in rivolta. In Europa le vacanze non sono più brevi”
░ Anche in Francia e Spagna uno stop di 16 settimane in totale (di Alessia Camplone).
Sarà perché il clima è migliore, ma in Europa sono Italia e Spagna che prediligono le vacanze scolastiche in estate. Tre mesi filati, o quasi. Finora è stato così, ma è bastato un sasso lanciato nello stagno in piena campagna elettorale perché il dibattito si incendiasse, facendo presupporre che le vacanze in Italia siano molto più lunghe che negli altri Paesi, cosa che a ben guardare non è. Il sasso, due giorni fa, è stato un riferimento nella bozza sul mercato del lavoro della lista civica di Monti con un riferimento – sotto forma di ipotesi – alla possibilità di limitare ad un mese le vacanze estive, sia pure su base volontaria. Con l’intenzione di offrire un servizio ai genitori che lavorano. Lunedì sono stati i sindacati a scendere in campo, un coro di voci contrarie. Nel frattempo si sono scatenati i social network. Si sono perse per strada le ragioni della proposta, che erano anche quelle di offrire attività sportive o di recupero per gli alunni rimasti indietro nella preparazione, e il messaggio che è passato è quella di una riduzione tout-court a un mese delle vacanze estive scolastiche. Twitter è stata intasata di critiche pesanti, e insulti. Sullo stesso social network Monti ha dovuto chiarire: «Ma chi ha mai parlato di taglio delle vacanze?». Con la replica di Pier Luigi Bersani: «Prima di parlare di allungare o accorciare vacanze estive, teniamo le scuole aperte tutto il giorno per attività didattiche» ha scritto anche lui su Twitter. La ricetta del segretario Pd: «Facciamo manutenzione straordinaria delle scuole, così diamo anche un po’ di lavoro». Dal fronte Pdl entra nella polemica Renato Brunetta: «Un solo mese di vacanza per gli studenti? Mi piace, è una delle poche cose giuste dette da Monti negli ultimi 14 mesi». Ma qual è la situazione vacanze dei nostri studenti rispetto ai ragazzi degli altri Paesi d’Europa? All’incirca in Italia gli studenti stanno lontano dai banchi per 16 settimane, come i coetanei francesi e spagnoli, e una settimana in meno dei romeni che sono in assoluto i più vacanzieri del Vecchio continente. Anche in Svezia si trattano bene, con 15 settimane di riposo dallo studio. In questa cinquina di partenza solo Italia e Spagna si concedono 13 settimane di vacanze estive, in risposta al clima che rende arduo l’impegno sui libri. In Francia, invece, staccano due settimane in autunno oltre a fare vacanze a Natale, carnevale e primavera. Gran Bretagna e Finlandia si accontentano di 13 settimane lontano dai banchi e la Germania abbassa ulteriormente a 12 il periodo di riposo. Nell’estate del nord Europa la vacanza degli studenti dura dalle sei alle 10 settimane, ma in compenso ci sono periodi di riposto sparsi durante il resto dell’anno e non solo a Natale. In Gran Bretagna in particolare, gli studenti possono approfittare di vacanze spot di 4 giorni nel corso dell’anno scolastico. «I genitori non hanno tre mesi di ferie - dice Flavia Capozzi, neuropsichiatra infantile e docente alla Sapienza - quindi è giusto tenere le scuole aperte, ma non con la didattica e le lezioni perché per gli alunni sarebbe faticoso, visto il nostro clima. Organizziamo gli stop durante l’anno».

http://finanza.repubblica.it - 29/01/2013
“Licenziamento colf, da gennaio si paga un contributo ad hoc”
░ Con l'entrata in vigore dell'Aspi, dal 1° gennaio, è scattato anche un nuovo obbligo contributivo per i datori di lavoro che intendono interrompere il rapporto con i propri dipendenti. Si tratta di un nuovo contributo per il licenziamento dovuto all'Inps. L'obbligo riguarda anche i datori di lavoro domestico. Licenziare la colf o la badante, quindi, diventa più costoso. (di Antonella Donati).
In caso di interruzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato per causa diversa dalle dimissioni, dunque, il datore di lavoro è tenuto a pagare un ulteriore contributo destinato al finanziamento dell’Aspi. La somma da versare è pari a 483,80 euro per ogni dodici mesi di anzianità, a prescindere dal numero di ore lavorate. Il contributo è dovuto per un massimo di tre anni, quindi con un tetto di 1.451,40 euro. Il contributo di licenziamento, da versare all'Inps, si paga qualunque sia la motivazione del licenziamento, anche se questo avviene per giusta causa. Non è dovuto alcun contributo solo in caso di dimissioni volontarie e licenziamenti effettuati in conseguenza di cambi di appalto, ai quali siano succedute assunzioni presso altri datori di lavoro, in applicazione di clausole sociali che garantiscano la continuità occupazionale prevista dai contratti nazionali, o interruzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato, nel settore delle costruzioni edili, per completamento delle attività e chiusura del cantiere. L'Inps non ha ancora emanato le istruzioni operative per il pagamento, mentre nella circolare 140/2012 ha fato il punto sui nuovi obblighi. Per i datori di lavoro domestico è prevedibile, comunque, che la richiesta di versamento verrà inviata a domicilio in seguito alla comunicazione della conclusione del rapporto di lavoro.

Il Messaggero.it - 1/02/2013
“Stretta sugli atenei, arriva l’esame di qualità”
░ Una commissione valuterà i requisiti per i finanziamenti.
Un bollino blu per l’università. … La novità è nel decreto firmato due giorni fa dal ministro dell’Istruzione Francesco Profumo che introduce parametri oggettivi a tutto campo, dalla didattica all’organizzazione delle sedi e dei corsi di studio; unificando, per la prima volta, una normativa che fino ad ora era frammentata se non assente. A promuovere (ma anche bocciare) gli atenei ci penserà l’Anvur, Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (voluta dal ministro Fabio Mussi e istituita nel 2010 dal ministro Mariastella Gelmini) e che già valuta la ricerca e assegna le risorse. Il nuovo sistema nasce per aiutare le aspiranti matricole a scegliere il titolo di studio che si crede dia più possibilità di preparazione e, di conseguenza, anche di occupazione; ma anche e soprattutto per incentivare gli atenei a migliorarsi. Con il rischio di chiuderli se non si sta a passo con il merito. E di far piazza pulita di quei corsi che non vanno incontro a reali esigenze degli studenti e del mercato. In Italia c’è un’offerta formativa a livello universitario di circa cinquemila titoli di studio in 89 atenei. Dal prossimo anno cambiano le regole, da subito, per università e corsi di studio all’esordio. Per quelli già esistenti l’impatto sarà graduale. Regole nuove che valgono per gli atenei statali, privati e anche per le facoltà on line. Il “controllo di qualità”, che sarà a più livelli (il principale, con una Commissione che visiterà periodicamente le facoltà) dovrà essere rinnovato ogni 5 anni per le sedi universitarie e ogni 3 per i corsi. Con l’effetto che, se non ci sarà rispondenza con i requisiti di qualità si chiude il corso, o addirittura l’università. Nella valutazione periodica saranno presi in considerazione oltre ai risultati di didattica e ricerca e all’organizzazione delle sedi e dei corsi, i requisiti dei servizi per gli studenti dalle aule alle biblioteche fino ai laboratori. Dovrà essere rispettato il numero massimo di esami per ogni singolo corso. «C’è in gioco una partita molto innovativa - commenta Muzio Gola, docente al Politecnico di Torino ed ex rettore - che ci vede allineati al resto dell'Europa e che è rappresentata dall'introduzione dell'assicurazione della qualità con i processi educativi che debbono essere tutti sotto controllo». Con questo decreto – spiega il ministero – ci si allinea alla maggior parte dei Paesi europei che già a partire dagli anni ’80, con l’Olanda a fare da apripista, hanno sviluppato sistemi simili. Avranno voce e ascolto anche gli studenti. E non sarà un via libera garantito neanche l’eventuale abbondanza di docenti, perché tra i requisiti richiesti ci sarà la sostenibilità finanziaria…. È prematuro dire quali delle 89 università italiane sono a rischio.
l’Unità - 1/02/2013
“Giovani derubati della fiducia”
░ Un commento di Giuseppe Provenzano.
l'Unità
È l’Italia che si impoverisce, e nella crisi perde pezzi di futuro. E così intacca il suo giacimento più prezioso, quel capitale umano che non valorizzato. È ciò che non solo interrompe ma rischia di minare ogni prospettiva di sviluppo del nostro Paese. È di tutto questo che ci parla il dato del crollo delle immatricolazioni all’Università. Non è il primo anno che viene denunciata questa inversione di tendenza, che inchioda l’Italia agli ultimi posti per numero di laureati tra i paesi Ocse. E proprio i numeri del decennio tracciano la sua parabola declinante, il precipitato di occasioni sprecate. Sprecato è il forte investimento che dalla metà degli anni Novanta aprì l’accesso all’istruzione avanzata a una massa di giovani, specialmente donne e meridionali, con la promessa di buona occupazione, verso una società della conoscenza e un’economia fortemente competitiva. Si iscrivevano all’Università sempre più diplomati, fino a oltre il 70% nel 2004, soprattutto nel Sud che colmava i divari formativi con il resto del Paese. Da allora, è iniziato un lento declino che la crisi ha accelerato, e quella percentuale è tornata ai livelli di quindici anni fa. Crollano le immatricolazioni non solo per un calo demografico o per la diminuzione degli immatricolati adulti (fenomeno importante in seguito alla riforma universitaria di fine anni Novanta). Oggi pesa la crisi, la difficoltà delle famiglie a farsi carico del costo di mandare i figli all’università. Tuttavia, la ragione principale va ricercata proprio nella promessa mancata sul lavoro, nel tradimento alle nuove generazioni. Anche ai laureati, a cui l’Italia ha dato soltanto un’alternativa tragica tra la precarizzazione e la marginalizzazione, lo «spreco» (si pensi ai Neet, alle centinaia di migliaia di laureati inoccupati) o peggio la «fuga» (con l’esercito dei nuovi fuorusciti). Al di là dei limiti interni al sistema formativo e universitario, della notoria mancanza di una politica per la ricerca, del diritto allo studio spesso vergognosamente negato, i fattori economici e sociali, attuali e di prospettiva, assumono un peso decisivo nelle scelte formative. È la forma più grave di «scoraggiamento» sociale: matura l’idea che investire nel sapere, e dunque in se stessi, alla fine non serva, altri sono i modelli di affermazione sociale. A che serve andare all’Università a per un giovane che si troverebbe a venticinque anni senza un lavoro all’altezza delle sue competenze e ambizioni? A che serve se a trent’anni, senza un sistema di protezione familiare o clientelare alle spalle, non avrà un reddito che garantisca una vita dignitosa? Chissà che qualcuno oggi non si accorga, pure in una campagna elettorale dove fanno capolino vecchi uomini e vecchie idee, che questo dato sul crollo delle immatricolazioni è un frammento di specchio che restituisce, con un’immagine abbastanza inquietante, la più nitida visione della posta in gioco: il ruolo dell’Italia, della sua società, della sua economia, nell’Europa e nel mondo di domani. Un domani per cui si sta facendo ormai troppo tardi, e non si può perdere altro tempo. …