Rassegna stampa

Recensioni dalla Stampa al 15 novembre 2013

 corrieredellasera.it – 9 novembre 2013
“Il ministro ai professori over 70: «In pensione»”
░ Maria Chiara Carrozza, a Radio 24: se avesse settant’anni sceglierebbe di andare in pensione.
I professori settantenni, parole sue, «se fossero generosi e onesti dovrebbero offrirsi di fare gratuitamente seminari, seguire laureandi o offrire le proprie biblioteche all’università». Ma dovrebbero andare in pensione perché «chi vuole rimanere in ruolo oltre i 70 anni offende la propria università e offende i giovani». … Quest’anno sono andati in pensione poco più di duemila professori (2.300 in totale hanno lasciato l’università) e il turnover permesso dopo la spending review di Tremonti è di 400 assunzioni. … Già nel 2010 quando si discuteva la riforma Gelmini per la norma sul pensionamento massimo a 70 anni, lei allora rettrice del Sant’Anna di Pisa si era espressa per un’età pensionabile massima di 65 anni, come è la media in Europa. Nei prossimi due anni, se l’appello sarà ascoltato dovrebbero andare in pensione circa 1.500 docenti che raggiungeranno il tetto dei 70, insomma ci saranno 750 posti a disposizione. Da quando è stata approvata la riforma Gelmini che ha portato a 70 anni il limite massimo per la pensione, con la possibilità di proroga di due anni a discrezione del consigli di amministrazione delle singole università è stato un percorso a ostacoli pieno di casi controversi. Con ricorsi al Tar e alla fine la sentenza della Consulta che a maggio di quest’anno ha decretato incostituzionale il limite. Ultimamente l’aria è un po’ cambiata e solo poche settimane fa la Statale a Milano ha decretato che comunque nessuna proroga sarà concessa ai settantenni. Funzionerà l’appello-invettiva di Carrozza? …

Il Messaggero.it – 9 novembre 2013
“Università e prof anziani, l’esperienza da non disperdere”
░ L’appello della Carrozza non funziona per il prof. Eugenio Mazzarella.
«….Per la stima che ho del ministro ne sono francamente stupito. Perché quello che ho inteso io è nei fatti un’irriconoscente delegittimazione di un’intera generazione di docenti che hanno speso una vita nell’università italiana; tutti ascritti al ruolo di “baroni”, quando nell’università italiana ci vuol ben altro che una cattedra e 70 anni per averne lo status….Il punto che mi preme segnalare al ministro, più che note spicciole di sociologia accademica, è che la sacrosanta esigenza di ringiovanire i ranghi dell’università italiana non sarà soddisfatta dalla messa al muro con ludibrio dei loro maestri settantenni. La questione è che ad oggi, grazie ai numeri del turn over bloccato da anni, per fare entrare un giovane ricercatore di 35 anni bisogna pensionare due settantenni e mezzo, cioè 175 anni di esperienza didattica e scientifica; e nel caso si volesse un ingresso di un ordinario di 35 anni gli anni di esperienza didattica e scientifica da rottamare salgono a 350! Se il ministro terrà fede all’enunciato di portare il turn over dal 20% al 50% questa amara partita doppia vedrà appena dimezzati i numeri, non altro. …

http://www.scuolaoggimagazine.org – 9 novembre 2013
“La verità, vi prego, sulla valutazione”
░ Prove Invalsi sì, prove Invalsi no. A. Valentino centra la questione: può il tema della valutazione dei sistemi formativi - sulla base delle rilevazioni condotte da Istituti e Agenzie ad hoc - essere sganciato da quello della valutazione come funzione della didattica nelle pratiche quotidiane di insegnamento e apprendimento? Riportiamo, parzialmente, queste molto interessanti riflessioni.
…. Nei mondi paralleli della scuola e dell’università, soprattutto a certi livelli, il gran parlare sulla valutazione sembra ridursi, da un po’ di tempo, al dilemma test sì / test no. Si parte spesso dal Regolamento, recentemente approvato, sul Sistema nazionale di valutazione (SNV); ma i ragionamenti ruotano sostanzialmente e continuamente intorno alle prove INVALSI. …. Ormai sappiamo tutto sui limiti, sui rischi, e sulle criticità in genere delle prove cosiddette oggettive somministrate per le rilevazioni nazionali e internazionali. Si tratta infatti per moltissimi, tra quelli che si occupano di scuola, di verità acclarate. Ma, su questo terreno della valutazione, ci sono ‘verità’ non meno significative, considerate - da non pochi - più promettenti e interessanti degli aspetti critici prima richiamati. Tende a farsi strada, ad esempio, l’idea che le comunità scientifiche a livello internazionale riescano sempre più e meglio sia a elaborare test validi / attendibili e vari (nelle forme) per le finalità che si prefiggono (rilevare la qualità degli apprendimenti e i processi e contesti in cui si sviluppa), sia ad offrire elementi solidi di conoscenza, utili ai sistemi formativi e ai decisori politici. Se così non fosse, infatti, non staremmo – si dice da più parti - a studiare e approfondire i risultati delle prove OCSE PISA, OCSE PIACC, TIMMS, ecc. … La domanda di buon senso che viene suggerita da questo gran parlare sul tema nei termini in cui se ne parla è, a mio avviso, la seguente : può il tema della valutazione dei sistemi formativi - sulla base delle rilevazioni condotte da Istituti e Agenzie ad hoc - essere sganciato da quello della valutazione come funzione della didattica nelle pratiche quotidiane di insegnamento e apprendimento? E non è proprio questa distorsione (tenere del tutto distinti e separati i due ambiti) che si rileva nel dibattito in corso? Vediamo. Prima considerazione: sulle modalità valutative ancora prevalenti Un aspetto innegabile: l'enfasi sui rischi dei test sulle prove INVALSI (spesso fondate), di fatto sta facendo passare sotto silenzio quello che è uno dei problemi più urgenti e preoccupanti del fare scuola nel nostro paese: il permanere, in maniera diffusa, di pratiche valutative “intuitive”. Modo elegante per dire: generiche, spesso inique, infondate; strumento, molto spesso, questo sì, di potere e punitivo, che spesso angoscia lo studente…. Seconda considerazione: sui tempi per le valutazioni e organizzazione della didattica L’interrogazione – e anche questo è un dato acclarato soprattutto nel secondo ciclo - continua ad essere elemento ancora fondamentale (assieme alla lezione generalmente frontale) del modello prevalente di organizzazione del tempo scuola. A proposito della quale sappiamo che copre una parte rilevante dell’orario scolastico - quasi la metà – (rilevazioni non recentissime, ma il dato complessivo comunque “tiene”: basta guardarsi in giro); che dilata in misura sostanzialmente improduttiva i tempi dedicati alla valutazione, a scapito di altre attività formative che, con gli insegnanti “che funzionano”, sono in genere privilegiate (lavori di gruppi su compito, problem solving individuale e collettivo, esercitazioni varie, pratiche di cooperative learning, ….); che provoca generalmente noia nella maggior parte della classe, chiamata ad assistere (ma che spesso fa altro), e apprensione nell’interrogato … Il problema – è la considerazione che ne consegue - è sensatamente riconducibile all’assenza di una cultura valutativa diffusa…, che impedisce di cogliere ciò che il buon insegnante sa bene. E cioè che le prove standardizzate sono strumenti utili e importanti per lo studente e per il suo lavoro (anche – e questo è da sottolineare con particolare insistenza - sotto l’aspetto organizzativo della didattica) e che la loro demonizzazione favorisce pratiche di conservazione e confligge con i principi di trasparenza e rendicontazione – e responsabilizzazione –. Che non sono proprio principi di serie B. Gli approdi del buon insegnante ‘Verità’ comunque da considerare sono anche quelle che tanti buoni insegnanti hanno scoperto e sperimentato nella loro attività. E cioè che le prove standardizzate non sono e non possono essere la modalità esclusiva ed unica di valutazione (a parte il fatto che i test sono ormai molteplici e vari nelle loro forme, in relazione a ciò che si vuole accertare e valutare); è fuori di ogni logica professionale voler escludere tipologie di tipo sostanzialmente qualitativo, oggi normalmente utilizzate, come le altre prove scritte, i colloqui condotti con misura e “sapienza” valutativa, le esercitazioni, i ‘prodotti’ didattici anche in termini di manufatti…. Conclusioni provvisorie In attesa di verità non contestabili sul tema generale, si potrebbe allora cercare di convenire su qualche punto. Per esempio che la critica alle agenzie di rilevazione come l'INVALSI non può significare critica distruttiva nei confronto di prove oggettive e test; la critica alle prove standardizzate e ai test in genere per la valutazione degli apprendimenti non può significare negazione di funzioni (a volte si finisce col percepire questo) che sono importanti - in termini consistenti, anche se non esaustivi – per capire come funzionano le nostre scuole e il sistema in generale (e permettere alle scuole di capire come esse funzionano e di confrontarsi con le altre con caratteristiche assimilabili); tra le funzioni delle prove standardizzate, da ripensare in direzione di un più stretto legame con le finalità istituzionali, non va trascurata quella di stimolo per una cultura didattica e valutativa più efficace. ….

http://www.scuolaoggimagazine.org – 10 novembre 2013
“Le prove Invalsi: più vincoli che opportunità”
░ Prove Invalsi sì, prove Invalsi no. Maurizio Tiriticco risponde: “Caro Antonio! Sei sempre generoso con i tuoi interventi, attento, problematico, prudente, propositivo!”. Riportiamo parzialmente queste riflessioni – come sempre in Tiriticco - eccezionali.
Però! Bastaaa!!! Troppe parole per chi… non vuole sentire! I funzionari del Miur e gli amici dell’Invalsi! La si faccia finita una volta per tutte! Miur e Invalsi vogliono insistere con le loro prove? Lo facciano pure! Però! Sia chiaro che non c’è prova Invalsi che possa saggiare lo stato delle conoscenze, abilità e competenze – parole grosse! – dei nostri studenti in determinati momenti del loro sviluppo/crescita e del loro apprendimento. Semplicemente perché – anche ammesso che siano ben fatte – possono saggiare soltanto uno dei mille percorsi che ciascun essere umano compie quando “organizza” e “produce” risposte a determinati stimoli. E nel caso Invalsi sono percorsi suggeriti, attesi, anzi imposti da chi produce e somministra la prova! Sai meglio di me che dalla formula SR, stimolo-risposta, tipica delle ricerche Usa degli anni Dieci e Venti – tutta colpa di un certo Watson – si è passati a quella SOR, stimolo e organismo che organizza la risposta! In quella O c’è tutto il punto forte che mette in discussione qualunque pretesa esaustiva che una prova oggettiva voglia vantare! Anche quelle con cui per decenni molti hanno pensato che si potesse misurare il QI. E come si stupirono, quando rilevarono che i QI bassi avevano raggiunto lusinghieri successi e che i QI alti chiedevano l’elemosina! Pensarono che le prove somministrate fossero errate! Ma non era affatto così! Le conoscenze, abilità e competenze – scusami la ripetizione – di un essere umano vanno ben oltre un semplice QI! … Insomma, tutte le prove oggettive, in quanto sono tali e sollecitano e pretendono una sola risposta, interessano e investono l’emisfero sinistro del nostro cervello, quello che io coloro in blu: tre per tre fa “sempre” nove… Ma se tu vuoi dire che tre per tre fa dieci o venticinque, puoi farlo – mentre miliardi di calcolatrici in tutto il mondo insisteranno sempre per il nove – perché entra in gioco l’emisfero destro, quello che io coloro in rosso e che è sempre pronto a mettere in discussione le risposte del fratellino di sinistra! Un certo Tolomeo si inventò che la Terra è al centro dell’Universo, nonostante un certo Aristarco secoli prima l’avesse pensata diversamente! E quanti roghi furono accesi per chi aveva osato pensare il contrario! Poi venne un certo Copernico che avanzò qualche dubbio – l’emisfero rosso è sempre sbarazzino – e dimostrò che quel contrario era invece corretto! La geometria euclidea è stata smentita dalla metageometria, la fisica newtoniana è stata messa in crisi dalla relatività di Einstein! E poi non so! Sono ignorante in materia! Insomma, se disponessimo soltanto dell’emisfero sinistro, saremmo tutti piccoli e insignificanti automi. Ma è l’emisfero destro che ci caratterizza e ci qualifica come esseri umani, belli e brutti, buoni e cattivi! Io sono Maurizio e tu sei Antonio! E qualcuno si è pure inventato quel libero arbitrio che altro non è se non il prodotto di quell’emisfero destro, sempre pronto a mettere in discussione le verità rivelate dal suo fratellino gemello! Sai meglio di me come lo stesso Bruner, cognitivista, si è divertito – con l’emisfero destro – a scrivere i Saggi per la mano sinistra, e che il suo alunno Gardner si è divertito a trovare sette, e più di sette, intelligenze multiple – che non sono affatto tutte blu – e che De Bono nei suoi corsi per manager ama “giocare” con ben sei cappelli per pensare! E pare che ne abbia trovati altri! Insomma! Su vasta scala si possono solo rilevare le congruenze del semicervello blu, che sono eguali per tutti, e che sono anche importanti! Non oso assolutamente metterle in discussione! Sono assolutamente vere! Mah! Quando mai scoprirò se tra i nostri studenti si nasconde un Aristarco, un Copernico, un Galilei, un Einstein, o un pittore o un musicista, o un poeta? O semplicemente un originale, un creativo? …. Uno studente che fallisce una prova oggettiva non è affatto uno studente fallito! Il fatto è che nessun esperto Invalsi – si fa per dire – potrà costruire prove che possano misurare le nostre operazioni rosse! Semplicemente perché non sono misurabili! Con il metro puoi misurare un quadro, ma se è una crosta o un Matisse è tutt’altra cosa! … E allora, dato che sembra che le prove Invalsi debbano essere un amaro calice (ma non si potrebbero spendere meglio i nostri soldi?) assumiamole per quelle che sono! Esercizi come tanti altri! Basta che il Miur non pensi di dare le pagelle alle scuole e ai nostri insegnanti! ….

larepubblica.it – 10 novembre 2013
“Pi greco meglio dei videogame i segreti della matematica diventano un gioco da ragazzi”
░ La matematica è un gioco da ragazzi, o almeno così sembra nella sale del museo Vaisseau di Strasburgo dove da qualche giorno è stata inaugurata Mathémanip, dove imparare senza rinunciare al divertimento.
Nella nuova versione francese, il format tedesco “Mathematikum” è stato integrato con altri giochi ed esteso su uno spazio ancora più grande…. Oltre quaranta attività ludiche, un percorso didattico di un paio d’ore che riesce a trasformare una disciplina considerata ostica e difficile e in un piacevole passatempo. Il segreto è imparare attraverso un’esperienza diretta, da cui il titolo della mostra, a metà tra matematica e manipolazioni…. Nelle edicole si vendono diverse riviste di esercizi per tenersi in allenamento e periodicamente si disputano i campionati di logica e matematica. Tra pochi giorni uscirà in Francia persino un documentario dal titolo ironico “Comment j’ai détesté les mathématiques”, ovvero “Come ho imparato a detestare la matematica”. …. Sviluppare la capacità di astrazione e risolvere equazioni significa anche affinare lo spirito critico. E quindi ben venga il gioco matematico, a qualsiasi età.

lastampa.it – 12 novembre 2013
“Carrozza: "La finanza nei programmi di studio"”
░ La Ministro Carrozza promette iniziative per contenere l’analfabetismo che caratterizza i programmi scolastici, quanto a Economia. Ecco le risposte incolori della ministro alle domande (all’ultima, in particolare) della giornalista di La Stampa.
- Maria Chiara Carrozza, ministro dell’Istruzione, solo quattro italiani su dieci sanno che cos’è il tasso di interesse. Un’altra forma di analfabetismo si diffonde nel nostro Paese, l’analfabetismo finanziario.
«È un problema serio … Quando ero docente parlavo molto con gli studenti, mi rendevo conto che alcuni erano più curiosi e informati, la media invece era poco informata. Questo provoca conseguenze, diventa difficile anche scegliere un partito se non si hanno nozioni di economia».
- Un tempo almeno una parte degli adolescenti leggeva «Il Capitale» di Marx, Keynes. Forse qualcuno lo fa ancora. «È un problema di formazione. Conoscono la filosofia ma manca la parte pratica che è essenziale per capire le decisioni prese dalle banche centrali o dalle istituzioni finanziarie, per capire che cosa significa democrazia e trasparenza….».
- Come si può colmare questo analfabetismo? «Penso che si debba fare un’operazione con i giornali, con canali Rai come Rai Educational o Rai Storia. O, ancora, con l’Ansa, che ha ottimi canali tematici che potrebbero essere sfruttati per organizzare seminari, per fare lezioni su temi di attualità economica. Ricordo alcune lezioni di economia di Giuliano Amato su RaiEducational, molto utili, molto ben fatte…»….
- E nelle scuole? «Quest’anno non ho fatto in tempo, ma è uno dei temi di cultura generale da affrontare nelle scuole. Bisogna fare in modo da inserire l’economia e la finanza nei programmi nazionali….
- E una nuova materia da inserire nei programmi scolastici? «Non penso che sia la soluzione. Più che caricare gli studenti e i professori con una nuova materia di studio penso che sia efficace agire attraverso idee e progetti trasversali. E potenziando gli insegnamenti tradizionali applicandoli a concetti di economia. Mi piacerebbe che per capire il capitalismo si leggesse Dickens: le pagine di “David Copperfield” sono molto più chiare di tanti trattati in materia. Oppure per capire il concetto di Pil vorrei che lo si affrontasse durante le lezioni di matematica».

ItaliaOggi – 12 novembre 2013
“Il pasticcio delle classi pollaio”
░ La legge indica il numero minimo di alunni, non massimo. Un ordine del giorno del Pd impegna il governo a correre ai ripari. Troverà i soldi ?
Un impegno a eliminare «i pollai». Il 31 ottobre scorso il Governo ha recepito alla Camera, durante la discussione sulla conversione del decreto 104 sull'istruzione, due ordini del giorno che lo impegnano ad assumere misure concrete di riduzione del sovraffollamento delle aule scolastiche e di miglioramento dell'offerta formativa…. Il problema, per essere risolto, richiede risorse, per finanziare le strutture e per incrementare il personale, risorse che al momento non ci sono. Il sovraffollamento provoca da anni polemiche e discussioni a non finire, con frequenti strascichi giudiziari, oltre a difficoltà organizzattive e didattiche. Il decreto 81 del 2009 sulla riorganizzazione delle istituzioni scolastiche, fortemente voluto dall'allora ministro dell'istruzione Gelmini ha innalzato il numero di alunni per aula fino a 27 per le classi iniziali di scuola primaria, le ex elementari, 30 per quelle della secondaria di primo grado e 27 per le superiori. Sono inoltre previsti accorpamenti per le classi intermedie che scendono al di sotto di un numero minimo di alunni iscritti. Nella pratica cosa succede se un preside si trova ad avere un numero di iscritti superiore magari del 10 o del 20% al numero massimo previsto? Di sicuro non può costituire due classi più piccole, visto che il decreto Gelmini lo impedisce esplicitamente. Si trova allora di fronte a due possibilità: o indirizzare gli alunni verso altri istituti, rispettando così al tempo stesso il numero minimo e le norme di sicurezza sancite dalla legge, oppure, prassi assai più diffusa in tempi di concorrenza tra istituti, formare classi ben più numerose. Anche perché il decreto Gelmini fissa i numeri minimi ma non dice nulla sui massimi. In teoria insomma non si può fare una prima superiore con 26 alunni ma si può farla di 53, cioè il doppio meno uno di 27. Questa la genesi delle cosiddette «classi pollaio» secondo i firmatari dei due ordini del giorno, che infatti chiedono l'abolizione degli articoli del decreto 81 che fissano i numeri minimi e il ritorno alla situazione precedente al 2009, che consentiva la costituzione di classi anche molto più piccole. Del resto la battaglia contro il sovraffollamento delle aule scolastiche è uno dei leitmotiv di questo autunno della scuola italiana….

ItaliaOggi – 12 novembre 2013
“Non si permetta di giudicarlo!”, se i genitori insultano i professori
░ La denuncia di una docente aggredita per aver giudicato male un tema (“Non è farina del tuo sacco”). di Salvo Intravaia.
“Non è farina del tuo sacco”. E a scuola scoppia il putiferio: i genitori dello studente, accusato dalla docente di avere consegnato un compito “taroccato”, si presentano a scuola e aggrediscono verbalmente l’insegnante che teme anche il “contatto” fisico. Dopo mezz’ora di improperi e parole in libertà, i genitori imbufaliti perché la prof si era permessa di “screditare” l’alunno davanti alla classe vengono messi alla porta dai bidelli. E pochi giorni dopo si beccano una querela. Adesso, l’insegnante - che nel frattempo è stata contattata dai genitori che si sono scusati di quei minuti di “lucida follia” - non sa che fare: ritirare la denuncia o proseguire nell’azione giudiziaria? Anche perché, protagonista dell’ennesima aggressione nei confronti di un docente della scuola pubblica italiana, questa volta, è un servitore dello stato: un poliziotto…. “Lei si è permessa di dire a mio figlio che il compito non era farina del suo sacco”, inveisce il papà. “Ma se non mi posso più permettere di dire ai miei alunni che i loro compiti, peraltro svolti a casa, non sono farina del loro sacco, io non posso in alcun modo esercitare il mio ruolo in classe”, fa presente la docente. A questo punto interviene la madre che “accusa” l’insegnante “di non avere voluto interrogare come volontario il figlio per recuperare un brutto voto”….
E il papà dell’alunno perde la testa. “Lei non capisce niente, non capisce neanche l’Italiano, anche se insegna Italiano!”, grida in faccia alla docente. E, col dito indice puntato quasi dentro l’occhio della malcapitata, aggiunge: “Stia attenta, io la rovino, lei mi deve ascoltare, io sono un sottufficiale di Polizia”. … La professoressa presenta una querela contro i due genitori. E, appresa la notizia, i due si presentano al cospetto della prof. dichiarandosi pentiti e dicendo all’insegnante che una eventuale condanna avrebbe stroncato la carriera al poliziotto con gravi ripercussioni anche a livello economico. …

lastampa.it – 14 novembre 2013
“I ricercatori e il piano flop. Tornati in Italia e maltrattati”
░ Contratti precari e demansionamenti dopo aver rinunciato alle carriere all’estero. Di Flavia Amabile
Quando Anthony Marasco ha sentito quella frase si è arrabbiato ancora di più. Già è furibondo per come l’Italia lo ha trattato, le parole della ministra dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza gli sono sembrate uno schiaffo dritto in faccia, e ha deciso di rispondere. «A differenza del passato - aveva spiegato la ministra parlando del suo nuovo programma per il rientro dei cervelli fuggiti all’estero - stavolta garantiremo il consolidamento dei ricercatori in arrivo dall’estero all’interno del sistema universitario. Non si può fare l’attrazione con i contratti a termine». Dopo averla letta, Anthony Marasco ha scritto una lunga lettera che è stata firmata da oltre 30 altri che, come lui, si erano fidati negli anni scorsi delle promesse dei governi italiani. Alcuni di loro pagando la scelta a caro prezzo. «… Alcuni di noi sono stati stabilizzati; altri per essere stabilizzati hanno dovuto accettare un abbassamento di rango e di stipendio; altri ancora sono dovuti ritornare all’estero o hanno dovuto cambiare mestiere. Per tutti, comunque, si è trattato di un inutile calvario, con atti formali presi all’ultimo minuto, leggi che cambiano improvvisamente, procedure farraginose e incerte. ….Non si può voltare pagina facendo finta che non esistiamo»….
Anthony Marasco, Phd a Berkeley, specializzazione in Storia intellettuale, nel 2004 arriva all’università Ca’ Foscari di Venezia ad insegnare Letteratura Americana. «L’entrata è stata da rockstar: applausi, complimenti, tutti felici, tutti attorno. Quattro anni dopo l’uscita è stata da incubo… Da risorsa ero diventato un problema… Sia coraggiosa signora Ministro, e metta fine a una stagione poco felice».

Dazebao.org – 15 novembre 2013
“Ocse. I dipendenti pubblici italiani sono pochi e malpagati”
░ Gli insegnanti italiani sono tra i meno pagati dell’area Ocse, con lo stipendio di un insegnante al 15esimo anno di carriera pari al 56 per cento di un lavoratore di alto livello del terziario
In compenso il Belpaese strapaga il top management. L’Ocse ha pubblicato oggi il rapporto sulle pubbliche amministrazioni dei paesi aderenti, una sfilza di dati che disegnano un pubblico impiego italiano composto da poche persone, la maggior parte pagate poco, ma con stipendi che si impennano oltre l’immaginabile per un manipolo di top manager…. Balza agli occhi il dato relativo al numero dei dipendenti pubblici italiani, in deciso calo rispetto all’anno scelto come confronto e nettamente al disotto della media dei 32 Paesi Ocse. In Italia nel 2008 ci sono infatti appena 14,3 dipendenti pubblici per ogni 100 occupati, erano 15,3 nel 2000. Il dato ci pone decisamente al disotto della media Ocse…. L’Ocse ha pubblicato inoltre un confronto tra le retribuzioni di alcune figure di pubblici dipendenti ed anche qui arrivano dati duri da digerire. A guadagnarsi gli onori della cronaca sono i 149 italiani che incassano un reddito medio di circa 650 mila dollari annui contro una media di circa 250 mila. Un dato che appare evidentemente assurdo tanto da far passare in secondo piano le circa 1600 persone classificate come management intermedio che godono comunque di retribuzioni superiori alla media, 176 mila dollari annui contro 126mila….