www.insegnareonline.com – 15 maggio 2014
“Invalsi: Liberi tutti?”
░ Un commento salomonico di Mario Ambel.
Strano (e sempre un po' triste) paese, questo! Fino a un mese o due fa, parlar male dell'Invalsi o anche solo avanzare critiche e perplessità per migliorarne il funzionamento e i rapporti con le scuole era considerato una sorta di Lesa Maestà. … Da qualche giorno, il vento sembra invece aver mutato direzione. Da qualche giorno parlar male dell'Invalsi, avanzare non solo dubbi, ma critiche feroci e talvolta anche prive di senso, scoprirne le lacune e le parzialità, invocarne la soppressione, boicottarne l'esercizio è divenuto pratica corrente. Abbiamo addirittura sentito esponenti politici che certo non si occupano tutti i giorni della valutazione del sistema scolastico contraddire quella che fino a poche settimane fa era una sorta di religio sine qua non: il sistema di valutazione così come viene oggi esercitato è condizione essenziale per l'efficacia del sistema e il suo miglioramento. E ora sono arrivati anche gli studenti, che passano dall'ansia indotta dei più piccoli e dal boicottaggio strisciante consumato sui banchi dei più grandi a quello esplicito portato nelle piazze, digitali e reali. Meglio: se non altro evitiamo di alterare i risultati, con tutto quel che ne consegue. Insomma, da qualche giorno parlar male dell'Invalsi è diventato una sorta di sport nazionale, come sparare sulla Croce Rossa…. Il sospetto (di quelli andreottiani, per intenderci) è che lo scontro per la carica di Presidente dell'Istituto abbia lasciato scontente le due fazioni estreme. Quella di chi avrebbe voluto un Invalsi ancor più funzionale alla logica competitiva, meritocratica, che pretende di usare poche prove censuarie per misurare e valutare tutto: gli allievi, gli esami, gli insegnanti, le scuole, le macroregioni, il paese e usare gli esiti, ovviamente pubblici, per fare classifiche, pubblicare risultati, premiare e punire, fornire ai genitori criteri di scelta e chi invece vorrebbe abolire i “quiz” (le prove Invalsi non sono quiz, spesso lo sono invece quelli per l'ammissione alle facoltà universitarie) e l'Istituto che li propina proprio perché funzionali a quella idea di scuola e di società competitiva ed escludente, chi non vede soluzione praticabile alla presenza di una qualsiasi forma di osservazione e valutazione esterna o mista del funzionamento e degli esiti delle istituzioni scolastiche. Si ha come la sensazione che la sconfitta di queste due ipotesi abbia lasciato un poco più aperto lo spazio per lavorare a una soluzione intermedia: un sistema di valutazione che funziona anche perché accetta le critiche e che collabora in modo dialettico con una scuola che a sua volta vi interagisce anziché subirlo, riflette in modo professionalmente maturo sui rapporti fra la valutazione esterna e quella interna e così facendo contribuisce a migliorarle entrambe. Insomma uno spazio di costruzione condivisa di professionalità più competenti, dall'una e dall'altra parte, capaci anche di riconquistare la fiducia e la collaborazione degli allievi. Che poi è la cosa che più conta e per la quale vale la pena spendersi. Si ha la sensazione che sia questo spazio a essere sempre più faticoso in questo paese. E che anche solo l'apertura di uno spiraglio in tale direzione finisca con l'alimentare, magari inconsapevolmente, il fuoco di fila. Asservimento a logiche preconcette e rottamazione delle procedure passate sembrano oggi aver molto più appeal. Infatti hanno subito riempito le gazzette.
www.latecnicadellascuola.it/ – 18 maggio 2014
“Nuovo taglio di 120milioni al fondo di istituto?”
░ Un’allarmante considerazione avanzata da Reginaldo Palermo; se ha ragione (com’è il più delle volte) il Fondo d’Istituto “sparirà”.
Manca ancora l'atto di indirizzo per dare avvio al contratto sugli scatti stipendiali. Se il contratto non verrà firmato entro il 30 giugno è quindi possibile che i 120 milioni messi a disposizione dal D.L. n. 3/2014 finiscano nelle casse dello Stato. L'unica soluzione, a quel punto, sarà quella di attingere al fondo di istituto. Ormai è quasi certo: i 120 milioni di euro messi a disposizione dal comma 2 dell’articolo 1 del D.L. n. 3/2014 per consentire il riconoscimento dello scatto finiranno nelle casse dello Stato. La norma, infatti, è chiara: per poter essere utilizzati è necessario che il contratto nazionale sugli scatti venga firmato entro il 30 giugno prossimo. Ma il fatto è che - ad oggi - il tanto atteso atto di indirizzo che dovrebbe dare avvio alla trattativa non è ancora arrivato all’Aran. E senza questo “pezzo di carta” non si può fare nulla. In realtà il Ministro Giannini ha già annunciato più volte che l’atto di indirizzo è pronto, tanto che qualche settimana fa, in occasione dell’ennesimo annuncio, i sindacati avevano anche espresso viva soddisfazione. A questo punto proviamo a fare due conti. Supponiamo pure che la prossima settimana l’atto di indirizzo venga formalizzato e inviato all’Aran e supponiamo anche che la trattativa si apra immediatamente: saremo comunque arrivati a fine maggio. Diamo per scontato che la firma della pre-intesa avvenga nell’arco di due-tre giorni: saremo ai primi di giugno. Ma c’è un “piccolo” particolare: quando la legge parla di “conclusione del contratto” non può che riferirsi alla firma definitiva che avviene solo dopo che gli organi di controllo hanno verificato la congruità del contratto stesso. E bisogna anche aggiungere che gli organi di controllo hanno tempo almeno 30 giorni per registrare il provvedimento. Insomma: se tutto va nel migliore dei modi, la firma definitiva potrebbe arrivare ai primi di luglio. E allora? Nessun problema, la soluzione c’è: per garantire l’attribuzione degli scatti non si potranno più usare i 120milioni di cui parla il D.L. 3/2014 ma sarà possibile decurtare dello stesso importo il fondo di istituto che in tal modo, a partire dal 2014/2015 sparirà del tutto.
www.latecnicadellascuola.it/ – 20 maggio 2014
Professori "promossi" a impiegati che inseriscono dati
░ Parole di Lucio Ficara. Condividiamo e aggiungiamo che la Giannini copia, in ciò, Profumo e Carrozza.
Siamo al paradosso: gli insegnanti devono dedicare il proprio tempo ad inserire i dati delle prove Invalsi, mentre persone che magari non hanno mai insegnato predispongono i test (con inevitabili strafalcioni)… Il docente ha bisogno di essere apprezzato, stimato per il valore intellettuale che rappresenta e non può essere umiliato e degradato a svolgere obbligatoriamente e gratuitamente mansioni burocratiche come quella di inserire in una maschera elettronica migliaia di dati dei test Invalsi. Infatti l’Invalsi ha predisposto un file di excel con macro attive che funzionano solo con il software Microsoft, obbligando di fatto i docenti di Italiano, matematica e le maestre nelle scuole elementari ad eseguire un massacrante inserimento dati delle risposte del test di Italiano, matematica e il questionario dello studente per le scuole secondarie. Si tratta di una vera e propria molestia burocratica che vede i docenti di ambito impegnati ad inserire dati per molte ore. Questo è veramente assurdo, si utilizzano gli intellettuali come se fossero dei semplici impiegati per inserire anche più di 2000 rispOSTE dei quiz Invalsi sostenuti dai propri studenti. Nel sito dell’Invalsi c’è scritto a chiare lettere che i docenti di ambito provvedono alla correzione delle domande a risposta aperta. I docenti della scuola provvedono a riportare le risposte fornite dagli allievi sulla maschera elettronica. Le predette maschere sono inviate all’INVALSI mediante upload sul sito dell’INVALSI stesso, secondo un calendario regionale. Tutto questo lavoro non è assolutamente riconosciuto sul piano economico e mortifica un’altra volta alcuni docenti che oltre a queste incombenze, hanno compiti in classe da preparare e correggere. Il ministro Stefania Giannini parla tanto di restituire dignità professionale ai docenti, ma nulla ha fatto di concreto per evitare tali stress alle maestre e ai prof di italiano e matematica. Perché l’operazione dell’inserimento dati nella maschera elettronica non viene fatto dagli stessi operatori Invalsi che tra l’altro sono anche stipendiati? Perché il ministro Giannini non fa svolgere tali test direttamente on line a tutti gli studenti, in modo da avere in tempo reale dati e risultati, evitando un super lavoro massacrante ai docenti? …
www.orizzontescuola.it – 20 maggio 2014
“Adempimenti fine anno. Gli obblighi dei docenti dopo il termine delle lezioni”
░ Gli artt. 28 e 29 del CCNL/2007 definiscono puntualmente gli obblighi di lavoro del personale docente articolati in attività di insegnamento ed in attività funzionali all’insegnamento. di Paolo Pizzo.
Quando le lezioni sono terminate l’attività obbligatoria di insegnamento (art. 28) non è più dovuta, per l’ovvia constatazione che mancano gli allievi a cui insegnare (l’art. 1256 del c.c. libera il docente da ogni obbligo). Le attività funzionali all’insegnamento (art. 29) sono così suddivise: 40 ore annue per la partecipazione alle riunioni del collegio docenti e ulteriori 40 ore annue per la partecipazione ai consigli di classe, di interclasse, di intersezione. I due tipi di impegni non possono essere sommati. Le ore non vanno confuse o considerate “intercambiabili”. Si fa dunque riferimento a 40+40 ore (distinte) e non ad 80. A queste si aggiungono ovviamente le attività obbligatorie in riferimento agli scrutini ed esami, compresa la compilazione degli atti relativi alla valutazione (tali attività non sono ricomprese nelle 40+40 ore). Ricordiamo che se il docente ha già raggiunto le 40 ore annue per la partecipazione alle riunioni del collegio docenti e sono previsti altri incontri, ha titolo o al pagamento delle ore aggiuntive o all’esonero dalla partecipazione. Nel contratto non si rinviene obbligo alcuno a carico dei docenti quando le lezioni sono sospese (mese di giugno compreso), salvo che per la parte residua degli obblighi relativi alle attività collegiali, sopra citate, di cui all’art. 29 del contratto.
Le uniche prestazioni che possono essere richieste nel periodo di sospensione delle lezioni sono dunque le attività funzionali all’insegnamento relative a scrutini ed esami, riunioni di collegio docenti e consigli di classe, ma solo se programmate, cioè comprese nel piano approvato dal collegio a inizio d’anno, e nella quantità fissata dal CCNL/2007. Il Piano annuale delle attività del personale docente viene adottato all’inizio dell’anno scolastico su proposta del dirigente e può essere aggiornato in corso d’anno sulla base delle esigenze che a mano a mano si presentano. L’aggiornamento del Piano ed eventuali impegni aggiuntivi deve comunque coinvolgere il collegio docenti, organo rappresentativo di coloro che poi a quel Piano devono dare coerente attuazione. I docenti, dunque, nel periodo in cui non vi è lezione ed escludendo ciò che prevede il Piano delle attività non possono essere obbligati (neanche con un ordine di servizio): - Alla presenza a scuola secondo il loro normale orario d’insegnamento; - A recarsi tutte le mattine a scuola per firmare il registro delle presenze; - Ad attività di riordino della biblioteca o altre attività normalmente “estranee” all’insegnamento; - Ad adempiere a qualsiasi attività prevista in un “elenco” di impegni stilato autonomamente dal Dirigente e non previsto nel Piano delle attività. Ciò vale per qualsiasi ordine di scuola a lezioni terminate. L’unica eccezione è per i docenti di II grado non impegnati negli esami. L'art. 11 dell'OM. n. 41 dell'11 maggio 2012 prescrive: “Il personale utilizzabile per le sostituzioni, con esclusione del personale con rapporto di lavoro di supplenza breve e saltuaria, deve rimanere a disposizione della scuola di servizio fino al 30 giugno, assicurando, comunque, la presenza in servizio nei giorni delle prove scritte..”. “Rimanere a disposizione” non vuol dire però obbligo della presenza o della firma per tutti i giorni che vanno dal termine delle lezioni al 30/6. Non a caso il comma poi specifica “assicurando, comunque, la presenza in servizio nei giorni delle prove scritte”. Ricordiamo inoltre a tutti i Dirigenti la Nota ministeriale prot. n. 1972 del 30 giugno 1980, che già all’epoca chiariva la questione: “Appare in contrasto con il sistema previsto dai Decreti Presidenziali 31 maggio 1974, numero 416 e 417, l’imposizione di obblighi di semplice presenza nella scuola che non siano dipendenti da iniziative programmate e attive e rispondenti a reali esigenze delle singole scuole. Si tratterebbe infatti di presenza permanente formale che, in tal caso, non terrebbe conto della peculiare caratteristica dell’istituzione scolastica, che si differenzia della prevalente attività (quella di insegnamento destinato agli alunni) prevista dal calendario scolastico.” Gli stessi concetti sono stati ribaditi con successive note e sentenze. Tra queste ultime ricordiamo quella del Consiglio di Stato n. 173/1987 in cui si decretava: “…Né è ipotizzabile l’imposizione dell’obbligo della semplice presenza nella scuola indipendentemente dall’impegno in attività programmate, non trovando ciò corrispondenza nel sistema delineato dal D.P.R. n. 417/1974”.
░ Il servizio pubblico di istruzione e formazione dovrebbe, a nostro parere, coprire il periodo dai 5 ai 18 anni concludendosi, nella secondaria di II grado, col biennio professionalizzante istruzione/lavoro nel quale intervengano, con la Scuola, i diversi soggetti educativi pubblici in partership con le aziende. Ecco il percorso, nel sistema da noi immaginato: - Primo ciclo: dai 5 anni ai 13 anni (obbligatorio e gratuito); - Biennio comune a tutti gli ordini scolastici: dai 13 ai 15 anni(obbligatorio e gratuito); - Anno di orientamento: dai 15 ai 16 anni (obbligatorio e gratuito); - Biennio terminale professionalizzante, in collaborazione con l’offerta formativa regionale e con l’imprenditoria. Su questo argomento della rimodulazione dell’iter scolastico/formativo con “uscita” a18 anni, è intervenuta il ministro Giannini. Riportiamo due articoli, il primo a firma Giorgio Israel, il secondo. Leonard Berberi.
Il Messaggero – 22 maggio 2014
“Alle elementari a cinque anni, ecco la riforma”
La dichiarazione del ministro Giannini della possibilità di anticipare l’ingresso dei bambini alle scuole primarie a 5 anni, deve aprire una riflessione. … C’è molto buon senso in questo approccio e proviamo a dire per quali ragioni, almeno secondo il nostro punto di vista. Siamo realisti: è evidente che siamo di fronte a una pressione fortissima volta ad accorciare il percorso scolastico di un anno. Rivestire questa pressione di motivazioni didattiche, pedagogiche o culturali è una colossale ipocrisia: è chiaro che le motivazioni sono di risparmio e di tagli, ed è altrettanto chiaro che la pressione è tale che al ministro, qualsiasi cosa ne pensi, risulta difficile resistere. … Dopo anni di sperimentazioni e riforme parziali che hanno fatto della scuola un colabrodo, è bene non farsi prendere da questa tentazione: non esistono le condizioni culturali, politiche, istituzionali (anche in presenza di un ministero inguaribilmente dirigista) per costruire in tempi ragionevoli una soluzione che metta d’accordo le innumerevoli teorie pedagogico-didattiche che si affollano attorno al capezzale del malato. Ricomincerebbe la diatriba sulla saldatura tra l’ultimo anno delle primarie e il primo delle medie, o tra l’ultimo delle medie e il primo dei licei. Non meno devastante – per usare un termine moderato – sarebbe l’idea del liceo quadriennale che porterebbe a distruggere i licei classici e scientifici, rendendo una burletta l’insegnamento della storia, della filosofia e della matematica, per non dire altro: la vicenda della “geostoria” indica con quale spregiudicatezza si può essere capaci di inventare materie-centauro. Allora, se proprio si deve fare qualcosa, meglio agire sul ciclo comprendente i tre anni della scuola dell’infanzia e i cinque della scuola primaria, riducendo a due i primi tre e inserendo i bambini nella scuola primaria a cinque anni. Va osservato, al riguardo, che la scuola dell’infanzia è il settore più in affanno e insufficiente a coprire la domanda, per cui la sua riduzione a due anni permetterebbe un impiego più razionale di insegnanti e aule presentando un’offerta di gran lunga migliore senza tagli. Inoltre, una maggiore interconnessione tra i due percorsi scolastici va nel senso della riforma basata sul progetto formulato anni fa da una commissione ministeriale presieduta da chi scrive, che ha unificato in un’unica laurea quinquennale la formazione degli insegnanti della scuola dell’infanzia e della scuola primaria, restituendo dignità ai primi e creando le condizioni per un’osmosi tra due percorsi che sono strettamente correlati. Possiamo ora constatare che si trattò di una scelta preveggente che, non a caso, è l’unica parte di quella riforma che ha retto e funziona, a fronte dello sfacelo cui è stato ridotto il progetto dei TFA (Tirocini Formativi Attivi). Essa può essere la base per una soluzione agevole nel senso prospettato dal ministro. V’è però un punto importante su cui occorre essere estremamente chiari. I bambini di cinque anni sono maturi per entrare nelle scuole primarie. Parecchi anni fa, vecchie teorie pedagogiche diffusero la tesi che un bambino, prima dell’età di sette/otto anni, non è capace di ragionamenti logici e non è capace di assimilare concetti matematici. Si tratta di tesi ampiamente confutate, screditate e dannose, che hanno legittimato una didattica rinunciataria e mediocre, una “didattica della paura” che ha avuto punte estreme nella tesi secondo cui in prima elementare non si debbono insegnare i numeri oltre al 20. Malauguratamente questi tesi vengono ancora sostenute da chi fa orecchie da mercante alle confutazioni che ne sono state fatte. Purtroppo, esse hanno influenzato sia la prassi di molti maestri, sia molti aspetti delle mediocri Indicazioni nazionali per le primarie varate un paio di anni fa….
Corrieredellasera.it – 22 maggio 2014
“Bimbi sui banchi già a cinque anni Ma è giusto anticipare la scuola ?”
A cinque anni l’americano Kristoffer Von Hassel ha scoperto che il suo videogioco aveva una grossa «falla» informatica. E per questo è stato pure premiato, poche settimane fa, dall’azienda produttrice. Ma chissà se è già pronto per andare a scuola. Sì, secondo Olanda, Regno Unito, Ungheria e Cipro. Decisamente no per altri Paesi come Svezia, Danimarca e Finlandia, dove tra i banchi ci si sede a 7 anni. E per l’Italia? Oggi la Primaria (le vecchie elementari) inizia a 6. Ma ai microfoni di Radio Capital il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini ha riaperto il dibattito sull’età. «Bisognerebbe dare la possibilità di mandare i figli a scuola un anno prima», ha detto. L’ipotesi di un’anticipazione non va giù ai sindacati. Cisl scuola e Flc-Cgil dicono di no. L’Anief, invece, appoggia il ministro: «Bisogna adeguarsi ai tempi che cambiano, sbagliano gli altri ad essere conservatori». Gli esperti si dividono. I genitori, in tutto questo, si chiedono cosa sia meglio fare per i propri figli. La questione, in realtà, non è nuova. Se ne parlava già alla fine degli anni Novanta, quando il dicastero dell’Istruzione era guidato da Luigi Berlinguer. A un certo punto comparve pure una bozza con tempi e costi, ma poi tutto si bloccò: troppo difficile mettere in pratica. Sui banchi già a 5 anni quindi? «Assolutamente sì», esordisce Silvia Vegetti Finzi, psicoterapeuta per i problemi dell’infanzia. «Ma bisogna fare attenzione: abbiamo comunque a che fare con degli esseri fragili». Per questo, «quando verrà il momento, bisognerà ripensare tutta la prima elementare… A livello didattico, poi, «bisognerebbe puntare molto sulle attività manuali, sul disegno, sulla musica, sul canto… «il programma del primo anno debba fare molta attenzione ai loro sentimenti: si tratta comunque di esseri umani che sono degli analfabeti emotivi». E deve ricordarsi che i bimbi «conoscono poco il proprio corpo, anche nelle cose magari quotidiane come arrampicarsi su un albero, lanciare un sasso, correre». «Quella del ministro Giannini è una buona idea: bisogna anticipare di un anno la fine del ciclo scolastico per allinearsi agli altri Paesi», ragiona Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Giovanni Agnelli. Che, però, parla di «obbligo flessibile», perché ognuno la sua storia e il suo percorso…. La soluzione migliore sarebbe lasciare libertà ai genitori: decidano loro quando iscriverlo, la famiglia è il miglior giudice»…. «C’è un problema tecnico: in questo modo si verificherà l’“onda anomala” con due generazioni di studenti che finiranno per frequentare lo stesso anno scolastico». E a quel punto, «passando da 500 mila a un milione in pochi mesi, bisognerà raddoppiare tutto: le aule, gli insegnanti...». … Secondo Ferraris «la didattica del primo e del secondo anno dovrebbe imitare il programma della scuola dell’Infanzia: molti lavori manuali, ricreazione più lunga, tante esperienze all’aperto, in mezzo alla natura». «E che non si mettano a dare i voti — conclude —. I piccoli non sono pronti ad affrontare lo stress emotivo»….