Il dato proviene da una lettura approfondita del rapporto Bes 2015: favoriti i giovani che appartengono ad un buon contesto socio-economico e coi genitori in possesso di titoli di studio medio-alti. Si riducono le opportunità di mobilità sociale, con un ulteriore calo di immatricolazione dei neo-diplomati che si iscrivono all’università. Lo studio dell’Istat confermato dall’Ocse: per i giovani che hanno difficoltà a trovare un lavoro, la prospettiva di proseguire gli studi è raramente considerata come un investimento, malgrado sia ampiamente dimostrato che possa migliorare le loro opportunità di successo in campo occupazionale.
Marcello Pacifico (Anief-Cisal): si fa sempre più forte l’esigenza di investire sull’orientamento scolastico e sulla maggiorazione di quote di organico di personale da destinare nelle aree più a rischio dispersione, rilanciando l’alternanza scuola-lavoro, prendendo esempio di quella tedesca, e di attuare seri investimenti nell’Ict, ma anche artigianato, turismo e nuove tecnologie.
Si ferma finalmente l’ascesa dei Neet, ma cresce il disinteresse per l’istruzione e la formazione: i dati giungono da una lettura approfondita del rapporto Bes 2015, realizzato dall’Istat, da cui si evidenzia che se la quota dei Neet under 25, i giovani tra i 15 e i 29 anni che non lavorano e non studiano “era aumentata in misura considerevole per effetto della crisi economica raggiungendo il 26% nel 2013”, si è invece mantenuta “stabile nel 2014”. Ma le buone notizie finiscono qui. Perchè rimangono in larga prevalenza i figli di genitori con titoli di studio elevati o professioni qualificate a proseguire gli studi e ad avere “minori probabilità di diventare Neet”.
I giovani appartenenti a classi sociali più elevate, ci dice sempre l’Istat, “presentano livelli di competenza informatica maggiori e partecipano ad attività culturali molto più frequentemente dei figli di genitori poco istruiti o con bassi profili professionali. Si tratta di uno svantaggio marcato che impone di essere preso attentamente in considerazione dalle politiche per garantire le opportunità di mobilità sociale”. E ciò malgrado sia ormai appurato che il titolo di studio conseguito abbia “un ruolo cruciale per la partecipazione al mercato del lavoro”, come la laurea sua uno degli antidoti contro gli “effetti negativi della crisi”.
Pertanto, il contesto socio-economico di provenienza e il titolo di studio dei genitori “condizionano fortemente la riuscita dei percorsi scolastici e formativi dei ragazzi. I figli di genitori con titoli di studio elevati o professioni qualificate – spiega l’Istat - abbandonano molto meno gli studi, hanno minori probabilità di diventare Neet e presentano livelli di competenza informatica maggiori dei figli di genitori con la scuola dell’obbligo o con bassi profili professionali”. Allo stesso modo, “forti correlazioni negative si riscontrano tra il tasso di uscita precoce e la quota di Neet e alcuni indicatori di istruzione e formazione. In particolare, tra il tasso di uscita precoce e il tasso di diplomati la correlazione è -0,83 e tra la quota di Neet e i livelli di competenza alfabetica e numerica la correlazione è rispettivamente -0,78 e -0,87”.
L’interesse limitato dei giovani italiani per l’istruzione si conferma tra coloro che intraprendono gli studi universitari. È preoccupante il fatto che il tasso di immatricolazione dei diplomati nel 2014/15 abbia registrato una diminuzione: “sarà necessario verificare che ciò non corrisponda all’inizio di un preoccupante progressivo allontanamento dall’università”. Mentre a livello di genere, dice ancora l’Istat, “continua a restare più alta tra le donne la percentuale di giovani che non studiano e non lavorano essenzialmente a causa della quota più alta di madri tra i Neet”.
Incrociando questi dato con il rapporto 'Education at a Glance 2015' dell’Ocse, pubblicato anch’esso in questi giorni, si giunge a conclusioni simili: “Circa il 35% dei 20-24enni non hanno un lavoro, non studiano, né seguono un corso di formazione”, scrive l’Ocse. Che ricorda anche come l’Italia detenga “la seconda percentuale più alta dei Paesi OCSE” in fatto di Neet. È significato che se “tra il 2010 e il 2014, i tassi di occupazione hanno registrato un brusco calo per questa fascia di età (dal 32% al 23%)”, è altrettanto vero che “la quota dei 20-24enni che continua a istruirsi è rimasta stabile al 41%”. Ciò suggerisce, sostengono i ricercatori Ocse, “che per i giovani che hanno difficoltà a trovare un lavoro, la prospettiva di proseguire gli studi è raramente considerata come un investimento che potrebbe migliorare le loro opportunità di successo sul mercato” occupazionale.
Anief ricorda che è soprattutto nel Sud Italia che la situazione è da allarme rosso: il tasso di disoccupazione è altissimo, la produzione industriale è modesta e i servizi socio-culturali latitano. Se prendiamo come riferimento solo l’area del Sud e delle Isole, il parallelo con l’Europa diventa quasi imbarazzante. Eurostat, attraverso il rapporto Regional Yearbook 2015, si è soffermata sul fatto che “in Italia c'è un divario di oltre trenta punti tra l'area con il tasso di occupazione più alto (Bolzano, al 76,1%) e la Sicilia”. Tanto è vero che “il tasso di occupazione in Sicilia delle persone tra i 20 e i 64 anni (42,4% nel 2014) è il più basso di tutte le regioni europee”. Sempre dal rapporto europeo è emerso che “su appena sei regioni in Europa con il tasso di occupazione tra i 20 e i 64 anni inferiore al 50%, quattro sono in Italia, Puglia (con il 45,7%, ndr), Campania (42,7%), Calabria (42,6%) e Sicilia mentre una è in Spagna (Ceuta) e una in Grecia ((Dytiki Ellada)”.
Il sindacato sostiene che per ridurre tale divario occorra attuare una serie di operazioni che rilancino l’Istruzione. Ad iniziare dalla quota di Pil dedicata al settore, oggi tra le più basse tra i Paesi moderni. Bisogna poi riportare gli organici ai livelli delle riforme pre-Gelmini, che hanno tagliato 200mila posti. Come c’è da incrementare il tempo scuola, che per effetto della Legge 133/08 si è ridotto più di un sesto: oggi l’Italia detiene il triste primato negativo di 4.455 ore studio alla primaria, rispetto alla media Ocse di 4.717; da noi è poi subentrato il maestro “prevalente” che svolge 22 ore, con il resto dell’orario assegnato fino ad altri 4-5 colleghi. E il docente d’inglese non è più specializzato. Non va meglio alle medie, dove i nostri ragazzi passano sui banchi 2.970 ore, contro le 3.034 dei Paesi Ocse.
“Siamo sempre più convinti- dice Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario confederale Cisal - che occorra anticipare il percorso formativo di un anno e, nel contempo, estendere l’obbligo formativo a 18 anni, come avrebbe voluto fare nel 1999 l’allora ministro dell’Istruzione Luigi Berlinguer. C’è l’esigenza di investire forte sull’orientamento scolastico e sulla maggiorazione di quote di organico di personale da destinare nelle aree più a rischio dispersione, rilanciando l’alternanza scuola-lavoro, prendendo esempio di quella tedesca, e di attuare seri investimenti nell’Ict, ma anche artigianato, turismo e nuove tecnologie”.
“Non possiamo più permetterci di avere qualcosa come 70mila studenti che lasciano la scuola superiore dopo il primo anno di studi, in prevalenza appartenenti a classi sociali meno agiate del Meridione. Mentre chi prosegue si ritrova sempre più spesso in classi pollaio. Con questo andare – conclude Pacifico – il numero di Neet rimarrà da record”.
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