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Finanziaria: un articolo introduce una tassa per ricorrere, in base al reddito

Dopo il decreto legge sullo sviluppo economico che vorrebbe vietare la stabilizzazione dei precari, ora il nuovo decreto legge n. 98 del 6 luglio 2011 impone il pagamento del contributo unificato (103 euro) per ogni ricorso a disoccupati, invalidi, precari e dipendenti del pubblico impiego che vogliono ricorrere contro il datore di lavoro o l’amministrazione. Agendo in questo modo, più che accelerare si impediscono i processi.

Soltanto nella scuola, più di 40.000 ricorsi sono in corso di deposito nei tribunali ordinari per richiedere la stabilizzazione dei precari, mentre l’Anief sta per depositare altri 4.000 ricorsi al tribunale amministrativo contro il nuovo decreto di aggiornamento delle graduatorie, dopo i 15.000 patrocinati vittoriosamente nel biennio precedente.

Per effetto delle modifiche al DPR 115/2002 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), introdotte dal c. 6 (Disposizioni per l'efficienza del sistema giudiziario e la celere definizione delle controversie) dell’art. 37 del nuovo D. L. (recante Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria): rispettivamente, nell’introduzione dell’art. 1bis al comma 9, si dispone che i ricorrenti che nel processo civile al giudice del lavoro nei confronti del datore di lavoro (l’amministrazione pubblica e privata) intentano un processo per controversie di previdenza (pensione) ed assistenza obbligatorie (invalidità), nonché per quelle individuali di lavoro (stabilizzazione, mancati scatti stipendiali, estensione dei contratti dal 30 giugno al 31 agosto, mobilità, errati punteggi nelle graduatorie ad esaurimento o d’istituto) o concernenti rapporti di pubblico impiego, le parti che sono titolari di un reddito imponibile ai fini dell'imposta personale sul reddito, risultante dall'ultima dichiarazione, superiore al doppio dell'importo previsto dall’articolo 76 (21.256,32 annui lordi da cumulare necessariamente con Irpef e con reddito dei conviventi o familiari), sono soggette, rispettivamente, al contributo unificato di iscrizione a ruolo nella misura di cui all'articolo 13, comma 1, lettera a), e comma 3,ovvero di 206 decurtate della metà (viste le modifiche introdotte con le lettere h) e p), cioè al pagamento di 103 euro per ricorso. Tale contributo è da pagare ai sensi della lettera s) anche per i ricorsi ai Tribunali amministrativi regionali e al Consiglio di Stato. Anzi, diventa di 300 euro se si vuole l’esecuzione della sentenza o di ottemperanza del giudicato (v. commissariamenti ottenuti dall’Anief) o di 600 euro se si ricorre al Presidente della Repubblica (lettere a, b, c).

La giustizia è a rischio per i più deboli – dichiara il presidente dell’Anief, prof. Marcello Pacifico – che non potranno più difendersi nei tribunali, arrivando a stento a fine mese.

È evidente che la norma, introducendo una nuova tassa per reddito, neanche troppo velatamente, ha l’intento di bloccare sul nascere il contenzioso avverso l’eventuale abuso di potere, distrazione o discrezionalità del datore di lavoro, che per la scuola coincide con l’amministrazione pubblica, scoraggiando i ricorrenti. È ovvio che il sindacato ricorrerà ai tribunali per sollevare questione di legittima costituzionale per contrasto agli articoli 1, 2, 3, 4, 111, 113 della Costituzione visto che la Repubblica è fondata sul lavoro, riconosce i diritti inviolabili dell’uomo, la parità dignità di ogni cittadino di fronte alla legge al di là della condizione sociale (reddito), rimuove ogni ostacolo di ordine economico, promuove ogni condizione per il diritto al lavoro, la pari dignità tra le parti (datore di lavoro e lavoratore) nel contradditorio, la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi sempre e comunque contro gli atti della pubblica amministrazione dinnanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa (senza alcun balzello, dunque).

Si ritorna, di fatto, allo Stato assoluto con una giustizia per la sola classe media abbiente che può pagarsi il costo di un processo, processo che fino a ieri era gratuito per tutti perché costituzionalmente protetto. Neanche sotto Federico II si pagavano i giustizieri per reclamare i propri diritti davanti all’imperatore. Si celebreranno così soltanto i grandi processi per appalti o onerosi risarcimenti tributari, visto che il reddito medio annuo lordo anche di uno dei 130.000 lavoratori (docenti e ata) precari della scuola (11 mensilità per 1900 euro lorde) che hanno le supplenze annuali o al termine delle attività didattiche, con il TFR e la disoccupazione, supera di poco il limite reddituale imposto dalla nuova norma per essere esonerato dal versamento del contributo. I loro possibili ricorsi, infatti, avendo nei processi civili e amministrativi un valore indeterminabile, saranno sottoposti al versamento della metà del contributo unificato previsto dalla lettera c), c. 1, art. 13 del modificato DPR 115/2002, cioè al pagamento di 103 euro.

In questo modo si inibisce il diritto del lavoratore a muovere causa contro il suo datore di lavoro, ovvero contro l’amministrazione, come se non fosse una parte nel processo ma direttamente il giudice nei confronti del quale non è opportuno o possibile finanziariamente ricorrere. Per non parlare della tassa da pagare per avere eseguita una sentenza o per commissariare l’amministrazione inadempiente, come era successo per la questione coda-pettine delle graduatorie. Ridicola, infine, la supertassa per chi decide di inviare una raccomandata al Presidente della Repubblica per notificare il suo ricorso, senza neanche la firma di un legale, entro 120 giorni all’amministrazione che aveva emanato l’atto da impugnare.

Una norma, dunque, palesemente discriminante, classista, fuori dalla logica dell’esercizio della giustizia costituzionalmente garantito a ogni cittadino. Speriamo che il Parlamento la cancelli durante la conversione in legge, per non ricorrere sempre ai tribunali per avere garantito lo stesso diritto alla giustizia, essendo tutti uguali davanti alla legge, sopra o sotto i 20.000 euro lordi annui, dipendenti o dirigenti.