Non c’è solo l’esigenza di rivedere e rendere omogenei i tempi del procedimento disciplinare: il D.lgs. 75/2017 scava un solco ancora più profondo tra i poteri dello Stato-datore di lavoro e i lavoratori pubblici. A chi esercita il potere disciplinare non può essere consentito di derogare ai termini che regolano il procedimento.
Marcello Pacifico (Anief-Cisal): è tempo di dire basta alla vecchia immagine del dipendente pubblico come sinonimo di fannullone o assenteista. La necessità di colpire senza alcuna esitazione chi, tra i lavoratori pubblici, vìola i vincoli contrattuali e deontologici, non consente alla pubblica amministrazione di porsi al di sopra della legge e reputarsi esentata dal rispetto tassativo dei termini che essa stessa si è data.
Il D.lgs. 75/2017 ha introdotto diverse e importanti modifiche al procedimento disciplinare nel pubblico impiego. Fermo restando quanto già disposto dal D.lgs 116/2016 sul licenziamento disciplinare nei confronti dei cosiddetti “furbetti del cartellino”, con questo ulteriore intervento in materia disciplinare si è inteso porre mano ad alcuni aspetti che, dal Decreto Brunetta del 2009 in avanti, avevano causato errori procedurali e dubbi interpretativi - prontamente rilevati dall’Anief -sull’art. 55-bis del D.lgs. 165/2001, che i giudici del lavoro sono stati spesso chiamati a risolvere.
Tra questi, ad esempio, la questione – per quanto riguarda il personale scolastico – della competenza del dirigente scolastico a infliggere la sanzione della sospensione dal servizio senza retribuzione fino ad un massimo di 10 giorni. Con il nuovo atto legislativo, infatti, si è inteso riconoscere espressamente tale potere ai capi d’istituto.
Novità, inoltre, sul versante della tempistica: è stata, infatti, eliminata ogni differenziazione nei termini del procedimento sulla base dell’autorità competente (nella scuola, il dirigente per i casi meno gravi, l’ufficio disciplinare presso il competente U.S.R. per quelli più gravi). In tutti i casi, infatti, il procedimento deve ora essere avviato entro 30 giorni dalla notizia del presunto illecito, deve prevedere la convocazione del dipendente per il contraddittorio a difesa con un preavviso di almeno 20 giorni e si deve concludere – con archiviazione o sanzione – entro 120 giorni dalla contestazione. Quando la competenza è dell’U.S.R., il dirigente scolastico deve trasmettere gli atti all’ufficio disciplinare regionale entro 10 giorni.
Rimangono capisaldi del procedimento il diritto del dipendente all’accesso agli atti, quello alla riservatezza, quello al differimento del contraddittorio in caso di impedimento, a produrre memorie scritte e a farsi assistere da un procuratore o dal proprio rappresentante sindacale.
Ciò che stona, nel nuovo impianto normativo, è invece quanto previsto dal nuovo comma 9-ter, che nega la decadenza dall’azione disciplinare e l’invalidità degli atti e della sanzione irrogata in caso di violazione – da parte della pubblica amministrazione – dei termini del procedimento, con l’unica eccezione di quelli di contestazione e chiusura, per i quali viene ribadito il carattere di perentorietà.
“Si tratta di un fatto grave – commenta Marcello Pacifico, presidente nazionale Anief e segretario confederale Cisal - : la pubblica amministrazione non può considerarsi legibus soluta e chiamarsi fuori dal rispetto di quelle stesse regole di cui chiede ai propri dipendenti di farsi garanti. Così si scava un solco sempre più profondo tra lo Stato come datore di lavoro e i lavoratori pubblici, ai quali viene per legge negato un aspetto fondamentale nell’esercizio del diritto alla difesa, ovvero la certezza del rispetto dei termini. Per capire quanto sia grave una simile concessione, si provi a pensare a cosa accadrebbe se a tutti i pubblici dipendenti si consentisse di derogare alle scadenze e ai termini imposti per legge. Sarebbe il far west”.
“Il tema dei procedimenti disciplinari è materia di estrema delicatezza, perché investe anche la questione della qualità del servizio offerto ai cittadini. In questo senso – continua Pacifico – siamo convinti che debbano essere puniti senza esitazione quei dipendenti “infedeli” che vìolano i vincoli contrattuali e deontologici. Ma consentire alla pubblica amministrazione di porsi al di sopra della legge e reputarsi esentata dal rispetto tassativo dei termini che essa stessa si è data non serve a questo scopo”.
“Tanto più – conclude il presidente Anief – se consideriamo che le violazioni più gravi, quelle per intenderci che portano al licenziamento del dipendente, sono solo un’esigua minoranza; specie nel mondo della scuola, dove i casi sono talmente pochi da assumere addirittura un carattere di assoluta sporadicità. Siamo convinti che sia finalmente giunto il tempo di dire basta alla vecchia e frusta immagine del dipendente pubblico come sinonimo di fannullone o assenteista. La pubblica opinione ha il diritto di conoscere nella giusta luce il lavoro dei dipendenti pubblici, a partire da quello di docenti e personale Ata, che ogni giorno – nonostante difficoltà di tutti i tipi e stipendi tra i più bassi in Europa – garantiscono eroicamente il diritto all’istruzione dei nostri figli”.