Il Governo sta già pensando ad un inasprimento del modello Fornero, si arriverà a percepire un assegno mensile anche del 40% dell’ultimo stipendio. Nel frattempo il “paracadute” è il fondo Espero.
Il dimezzamento dei pensionamenti del personale della scuola è solo l’inizio della parabola discendente, che nel volgere di pochi anni porterà ad allungare fino a 70 l’età anagrafica necessaria per lasciare il lavoro nel pubblico impiego anni. Il Governo sta pensando di allungare i tempi di addio al lavoro, dal 2020, con l’elevazione ulteriore dell’età anagrafica e con l’introduzione di meccanismi penalizzanti o premianti rispetto ai 66 anni attualmente previsti.
Il campanello d’allarme è già suonato: come primo effetto della riforma Fornero, a settembre il numero di insegnanti e Ata da collocare in pensione passerà da quasi 28mila del 2012 ad appena 14.522 unità. Si tratta di un record negativo che rischia di bloccare quel turn over nella scuola indispensabile per permettere lo svecchiamento della classe docente (con oltre 50 anni di media deteniamo già i prof più vecchi dell’area Ocse) e le immissioni in ruolo di 250mila precari inseriti nelle graduatorie, oltre che gli 11.542 vincitori del concorso a cattedra in corso di svolgimento.
Di queste difficoltà si è già reso conto il nuovo ministro del Lavoro Enrico Giovannini, che continua a lavorare ad un piano in base al quale, oltre alla necessità di migliorare la flessibilità in entrata, attraverso modifiche ai contratti a termine ed all'apprendistato, prevede una serie di punti da revisionare. Tra cui proprio le pensioni. Si starebbe già pensando, valutando i costi associati, ad una fascia di flessibilità per anticipare l'uscita dal lavoro di 3-4 anni in cambio di penalizzazioni da definire. Nella scuola i docenti con oltre 20-25 anni di anzianità potrebbero anche rimanere in servizio, vestendo però i panni dei tutor-formatori degli ultimi assunti. Non gravando, in tal modo, sulla previdenza e aprendo le porte ad una sorta di staffetta generazionale. Anche perché aver sacrificato il 2,5% del PIL dell’anno scorso non ha prodotto alcun beneficio alle casse dello Stato.
Intanto, il 18 novembre si discuterà in Corte Costituzionale sulla legittimità dello stop alla pensione per i cosiddetti ‘Quota 96’ della scuola. Dopo l’ordinanza del giudice del lavoro di Siena e la sospensione del giudizio disposta dalla Corte dei Conti dell’Emilia Romagna e della Puglia, si aspetta l’udienza pubblica del 19 novembre prossimo, quando la Consulta sarà chiamata a discutere sulla sospetta violazione degli articoli 2, 3, 11, 38, 97, 117 1 comma e dell’art. 6 della Cedu da parte dell’art. 24 del decreto legge n. 201 del dicembre scorso convertito dalla legge n. 214/11. A tal proposito è bene ricordare che una deroga (per l’anno 2013-2014, come previsto dall’art. 14 comma 20-bis, della legge 135/12) è prevista solo per il personale che risulterà sovrannumerario a seguito dei processi di mobilità determinati per quest’anno scolastico.
“Se non si interverrà rapidamente - commenta Marcello Pacifico, presidente Anief e delegato Confedir per la scuola - quello che aspetta i lavoratori più giovani è che dal 2030 le retribuzioni differite saranno più o meno la metà di quelle che si percepivano all’inizio del nuovo secolo. Alcuni esperti di previdenza ci hanno fornito proiezioni ancora più negative, addirittura di un taglio dell’assegno pensionistico pari al 60% rispetto all’ultimo stipendio. L’esito dipenderà anche da fattori economici nazionali ed internazionali non prevedibili. Ma in ogni caso le aspettative più rosee, fornite dai simulatori delle organizzazioni sindacali, collocano la riduzione al 36%”.
Per prevenire il sicuro ridimensionamento della retribuzione del dipendente andato in pensione, sarebbe sin d’ora importante pensare a una pensione integrativa nel fondo di comparto (che nella scuola si chiama ‘Espero’). Oppure di tipo bancario. Con l’approvazione del CCNQ del 29 luglio 1999, anche nel sistema previdenziale pubblico si è infatti introdotto il modello aziendale, attraverso il passaggio da regime TFS a regime TFR. Ciò ha aperto le porte ai fondi di comparto, utili a maturare un 35% di pensione integrativa rispetto a un 65% che si potrebbe maturare con il versamento delle aliquote massime deducibili, grazie ad un versamento mensile presso un istituto bancario, cifra che complessivamente risulterebbe pari alla retribuzione differita, il 40% dell’ultimo stipendio percepito (dopo i 70 anni).
“Ancora una volta – continua Pacifico - lo Stato priva le giovani generazioni non soltanto del lavoro ma del welfare finora garantito agli altri lavoratori più anziani. C’è estremo bisogno di una riforma complessiva che non soltanto tenga conto delle speranza di vita degli italiani ma della qualità della vita stessa in un sistema che riassegni funzioni tutoriali a chi ha più esperienza senza privare i cittadini della Repubblica del diritto-dovere al lavoro e i nostri studenti di insegnanti più giovani e più vicini al loro mondo esperienziale”.