° La funzione della Scuola e le sue prerogative in fatto di didattica e di valutazione
Fin dai primi giorni di governo, Renzi ha manifestato all’opinione pubblica un sentimento di apprezzamento per la Scuola.
° La funzione della Scuola e le sue prerogative in fatto di didattica e di valutazione.
Fin dai primi giorni di governo, Renzi ha manifestato apprezzamento per la Scuola, un sentimento generico che ad altri tocca sostanziare e che apprezziamo, abituati come siamo al distacco, quando non all’arroganza, di premier e ministri della Istruzione intenti a conservare un presente che, però, è di declino. I pubblici servizi sono predisposti ed erogati per la fruizione, dalla cittadinanza, di beni e servizi; quelli dell’istruzione e della formazione hanno, rispetto agli altri servizi di cui i cittadini fruiscono, anche una valenza generativa di beni futuri, in termini di investimento produttivo in capitale umano. Riteniamo che questo sia il motivo dell’apprezzamento che Renzi (è naturale che i giovani guardino al futuro) più volte ha manifestato prospettando il rinnovamento della Scuola; occorre, però, che a questo rinnovamento metta mano chi della Scuola ha competenza, e non ministri (e sottosegretari!) che entrano e escono attraverso la porta girevole dal MIUR promettendo volenterosamente di studiarsela. L’ultimo ministro di provenienza scolastica è stata la Falcucci; negli anni Ottanta governò per 5 anni. La lettera scarlatta che contrassegna coloro che lavorano nelle scuole (nell’Aggiornamento di ieri, abbiamo scritto come siano penalizzati nel reddito) sembra condizionare anche la nomina alla poltrona n.1 del MIUR: vanno bene avvocati, medici, rettori; l’importante è che non siano scelti tra coloro che lavorano nelle classi e nelle scuole; in un milione di persone non ce n’è uno papabile per governare il Ministero. I ministri dell’istruzione devono stare lì, a lavorare di fantasia, senza intralciare la rotta tracciata nelle stanze del MEF. Esigenze di bilancio hanno indotto il tandem Tremonti-Gelmini a varare la legge 6 agosto 2008 n.133 (di conversione legge del decreto legge n.112/2008) che ridusse di circa 120 mila addetti gli organici della Scuola, e sfregiò i curricoli scolastici per ricavare economie di bilancio:456 milioni E. per l’anno 2009, 1650 milioni per l’anno 2010, 2500 milioni per il 2011, 3200 milioni per il 2012, e via cumulando. Esigenze di bilancio indussero a chiudere i corsi-concorsi professionalizzanti SSIS che chiunque abbia cervello ha giudicato idonei per selezionare i candidati più capaci e colti (accesso mediante 3 prove selettive; 4 semestri di studio; 20 e più esami di profitto, con assegnazione dei voti; esame conclusivo articolato in 3 prove), in modo migliore che non concorsi a cattedre con preselezione mediante test a risposta multipla! Successivamente, le esigenze di bilancio hanno impedito i rinnovi contrattuali e hanno penalizzato le risorse del Fondo di Istituto. Quest’ultimo aspetto ci sembra significativo di un orientamento pericolosissimo delle politiche attuate dagli ultimi tre ministri dell’Istruzione, perché si colpisce quell’autonomia finanziaria delle scuole che fin dall’inizio è stata l’anello debole dell’Autonomia scolastica attivata con il Decreto legge 275/2009). E’ in ragione di questa autonomia che le scuole possono (e, a nostro parere, dovrebbero) abbandonare quei modelli didattici, in voga nello scorcio del secolo scorso, che la complessità dei processi di apprendimento ha reso riduttivi. Intendiamo riferirci sia al modello didattico basato sul rinforzo positivo (il “condizionamento strumentale” teorizzano dai neocomportamentisti), sia a quello basato sulla psicometria e sulla programmazione analitica degli obiettivi (nel Cognitivismo). Nell’epoca dei velocissimi mutamenti delle dinamiche cognitive e degli assetti intergenerazionali, le strategie educative e didattiche precostituite in forme lineari sono inefficaci; efficace è, invece, l’apprendimento costruito in situazione, dalla sinergia tra discente e docente. Ciò perché le dinamiche del rapporto insegnante-alunno variano in funzione delle caratteristiche dei protagonisti, e si attuano qui e ora, in forme peculiari su quegli aspetti del sapere che maggiormente sono presenti e significativi nel contesto educativo. Nella Società della comunicazione, l’insegnamento scolastico non ha più la funzione di trasmettere la conoscenza, funzione in cui la Scuola sarebbe sempre a rincorrere ciò che la Learning Society apprende da matrici molteplici e che modifica a ritmo frenetico: saperi in crescita esponenziale di cui nessun “centro” potrebbe mai più dirsi depositario legittimo. C’è, quindi, un compito urgente, riservato alle scuole, ritagliato sulla personalità qui e ora degli alunni, decisivo nel favorirne l’empowerment delle personalità, nel valorizzare le caratteristiche dei singoli alunni, nel favorirne la propensione socializzante, nel minimizzare ciò che è di ostacolo al rapporto pedagogico e alla dinamica tra alunni, nell’affiancarli (web education) nel confronto impari con la mole sovrastante della comunicazione mass mediale. Educare questa generazione di alunni - che attinge conoscenze e informazioni dal web e ne è condizionata nei processi logico-deduttivi, in quelli percettivi, nelle caratteristiche psicologiche e nelle dinamiche sociali - è molto più e molto diverso rispetto a quanto facevamo, nell’ultimo scorcio del secolo scorso, programmando unità di apprendimento lineari valutabili obiettivamente. Adesso, occorre attivare processi educativi di maggiore spessore: la funzione per la quale la Scuola è, nella società complessa, insostituibile è legata alla necessità che i cittadini siano formati al pensiero autonomo, cominciando dagli adolescenti. Perché ciò sia, occorre, a nostro parere, rafforzare il modello dell’istruzione partecipata, la responsabilità educativa delle comunità scolastiche, e la responsabilità didattica dei Consigli di Classe e dei Collegi dei docenti. In tale forma, la funzione educativa delle scuole esclude ogni interferenza esterna nella valutazione degli alunni (che è intrinsecamente connessa alla didattica), a cominciare dalle prove Invalsi che si effettuano per l’esame di Stato conclusivo del I ciclo di istruzione. La valutazione degli alunni è prerogativa professionale dei docenti presupponendo specifiche competenze psicopedagogiche e disciplinari; quella che l’Invalsi effettua rilevando i livelli di apprendimento a fini statistici segue criteri specifici; l’una non deve interferire con l’altra e ove producano valutazioni differenti, sugli stessi alunni, non ha senso ritenere che le une siano più obiettive delle altre. Seguono canoni docimologici differenti. La valutazione degli alunni, interna al rapporto educativo, focalizza la realtà individuale degli allievi; la valutazione effettuata nel contesto dell’attività di ricerca comparativa, condotta con indicatori convenzionali scelti in funzione di modelli teorici, focalizza target statistici. L’originaria mission dell’Invalsi (il monitoraggio del sistema scolastico a fini comparativi) è stata estesa alla valutazione del profitto degli studenti ma senza contemplare le scelte educative delle scuole, la prassi didattica, le specifiche caratteristiche. L’ingerenza dell’Invalsi nell’esame di Stato conclusivo del I ciclo (autorizzata o tollerata dal MIUR) è, a nostro avviso, più grave di quanto appaia; lo è: - dal punto di vista didattico (induce al Teaching for test); - da quello docimologico (stravolge la funzione dei test ignorando disinvoltamente ciò che caratterizza la valutazione scolastica); - da quello educativo (incide per 1/6 sul voto finale di un intero corso di studi, quale che sia l’orientamento dei commissari d’esame che, oltretutto, conoscono gli alunni da almeno un anno perché le commissioni sono fatte coincidere, a ragion veduta, con i Consigli di classe; - dal punto di vista etico, per il fatto che i responsabili dell’Istituto fanno pervenire alle scuole note operative trasudanti sfiducia nei confronti della professionalità del personale scolastico: i professori vi vengono sospettati di cheating, e vengono avvertiti del fatto che l’Invalsi attua accorgimenti per rilevare i comportamenti “opportunistici”; i dd.ss. sono richiesti di attivare certe procedure solo in presenza dell’incaricato Invalsi. Siamo al paradosso: per lunghi mesi, studenti e insegnanti abilitati e scelti dallo Stato effettuano l’attività educativa ma, nel momento conclusivo, persone che quel lavoro sconoscono e magari non saprebbero come fare essendo abilitate ad altro, entrano a condizionarne l’esito; è come se al critico musicale si permettesse di piombare, durante l’esecuzione dell’opera, nella buca dell’orchestra e assestare, sulle note conclusive, quattro strilli del suo trombone. E non è tutto. Il colmo dell’assurdo s’è avuto dall’ex ministro Carrozza che, nel suo improvvisato passaggio al MIUR, è giunta ad ipotizzare l’aggiornamento obbligatorio per i professori le cui classi si collocassero sotto la media nazionale nelle prove Invalsi. Il ministro Giannini è in condizione di cogliere il paradosso? Capirà che i test Invalsi la Terza prova scritta dell’esame di Stato conclusivodel primo ciclo (di cui alla legge 25 ottobre 2007 n.176) devono avere solo finalità statistica? Auguri per l’anno nuovo, e candidatevi con noi. Leonardo MAIORCA