L’approvazione della riforma Renzi-Giannini e dei decreti attuativi pubblicati in G.U. nei giorni scorso vanno nella direzione opposta a quanto indicato da ottanta accademici di tutto il mondo, secondo i quali la quantificazione continua dei risultati è imperfetta e non può guidare le politiche scolastiche: perché 'i risultati Ocse-Pisa, mettendo l’accento così forte su quello che è misurabile, rendono invisibile ciò che misurabile non è. A scuola sono importanti anche lo sviluppo fisico, morale, civico e artistico di ogni ragazzo. E per queste discipline non esiste, sostengono i docenti, un test che certifichi la crescita del ragazzo'.
Si conferma in pieno, quindi, la linea indicata da tempo dal sindacato: per certificare le competenze degli studenti, come indicato dalle più moderne teorie docimologiche, non ha alcuna utilità l’uso di un semplice test a crocette. Laddove il quadro socio-culturale è arretrato, infatti, semplificare porta a risultati errati. Servono, invece, delle adeguate tecniche e strategie d’insegnamento di tipo attivo. Come i giochi di simulazione, le cooperative learning and serving, il peer education e il flipped classroom. Per questo, investire sulle prove standardizzate, è una pratica che condurrà a una scuola sempre più 'piatta'.
Marcello Pacifico (Anief-Cisal): oggi i test Invalsi hanno ripercussioni dirette sul Rav, il rapporto di autovalutazione scolastico, e anche sulla valutazione diretta dei singoli docenti, senza che si dia un peso adeguato al tessuto sociale: le zone ad alto tasso migratorio, le scuole isolate dal resto del territorio, quelle ad alta criminalità, dove il tasso di abbandono è sopra la media, necessitano di uscire dalla logica della somministrazione in classe delle fredde schede. Questa logica dell’uniformità a tutti i costi va sostituita con quella della verifica qualitativa, caso per caso, istituto per istituto. Andando a verificare le indicazioni dei Ptof e delle classi. E a rivedere il decreto legislativo della L.107/15 su valutazione e certificazione delle competenze nel primo ciclo ed esami di Stato, nella parte in cui alle superiori rende i test Invalsi decisivi ai fini dell’ammissione agli Esami e fa ammettere gli studenti anche con un’insufficienza in una disciplina.
La test-mania comincia a perdere colpi, prima ancora di entrare a pieno regime nelle nostre aule: è di questi giorni la notizia che ottanta “prof” di tutto il mondo – New York e Arizona, Londra, Oxford e Leeds, Stoccolma, persino la Nuova Zelanda – hanno scritto al responsabile dei Test Ocse-Pisa, Andreas Schleicher, direttore del comparto Educazione dell’Organizzazione dei paesi industrializzati, per comunicargli tutta la loro avversità sulla test-mania che dopo tredici anni di applicazione coinvolge sessanta paesi nel mondo e ne orienta le politiche educative.
“Dicono i critici, innanzitutto, che l’uso della valutazione a risposta multipla – la “x” su quattro domande – ha favorito un’esplosione di insegnamenti con i test per studenti, insegnanti e amministratori di scuole”, scrive La Repubblica che ha ripreso la lettera pubblicata dagli accademici anche sul “Guardian”. Questa quantificazione continua dei risultati è imperfetta e non può guidare le politiche scolastiche di sessanta paesi che in quelle prove si riconoscono”. Inoltre, “i risultati Ocse-Pisa, mettendo l’accento così forte su quello che è misurabile, “rendono invisibile ciò che misurabile non è”. A scuola sono importanti anche lo sviluppo fisico, morale, civico e artistico di ogni ragazzo. E per queste discipline non esiste, sostengono i docenti, un test che certifichi la crescita del ragazzo”.
In conclusione, “il “Pisa regime” (lo chiamano così i docenti critici) impoverisce le nostre classi, toglie autonomia ai docenti e alza il livello di stress di scuole già molto stressate. Nessun test, è la conclusione, il punto otto appunto, dovrebbe ignorare la situazione economica dei Paesi in cui viene somministrato”. Quindi, conclude il quotidiano nazionale, “per evitare un ‘colonialismo culturale dell’Ocse’ sui paesi più poveri, il gruppo di docenti propone di affiancare a chi costruisce i lavori Pisa – oggi statistici ed economisti – genitori, educatori, amministratori di scuole, leader di comunità, studenti provenienti da discipline come antropologia, sociologia, storia, filosofia, linguistica, arti”.
Le forti critiche degli ottanta docenti universitari sulla somministrazione delle prove standardizzate nelle scuole pubbliche conferma tutte le perplessità espresse in tempi non sospetti dall’Anief contro il ricorso sempre più frequente all’uso delle prove Invalsi sul territorio nazionale: per certificare le competenze degli studenti, come indicato dalle più moderne teorie docimologiche, non ha alcuna utilità l’uso di un semplice test a crocette. Laddove il quadro socio-culturale è arretrato, infatti, semplificare porta a risultati errati: occorre, piuttosto, una buona didattica, che a sua volta non può limitarsi a un mero approccio disciplinare. Ciò che serve, se si vuole alzare l’asticella della formazione,sono delle adeguate tecniche e strategie d’insegnamento di tipo attivo. Come i giochi di simulazione, le cooperative learning and serving, il peer education e il flipped classroom. Per questo, investire sulle prove standardizzate, che mirano alla valutazione delle nozioni e della preparazione di base, è una pratica che condurrà a una scuola sempre più “piatta”.
Ecco perché i test Invalsi andrebbero aboliti. I motivi sarebbero davvero tanti, ma riassumibili in definitiva in due punti: innanzitutto, attraverso questi test, non si tiene conto della disomogeneità territoriale degli agenti culturali. La quale produce, per forza di cose, delle differenze tra alunni che appartengono a contesti scolastici completamente diversi; in questo caso, la scuola che si trova in un quartiere disagiato e deprivato culturalmente, esce svantaggiata dal test. In definitiva, sono i ragazzini a essere diversi, non le scuole o le competenze dei docenti. Perché se gli studenti sono diversi, non si può usare lo stesso “metro” di misura. Senza dimenticare che assieme agli allievi, a uscirne “sconfitti” sono pure le scuole e i loro insegnanti. E pensare che solo qualche mese fa lo stesso Istituto Invalsi ha ammesso, al termine di un monitoraggio nazionale, che occorrono politiche scolastiche differenziate in base alle esigenze del territorio e alle tipologie di istituti scolastici.
“Perché i test Invalsi hanno ripercussioni dirette sul Rav, il rapporto di autovalutazione scolastico, e anche sulla valutazione diretta dei singoli docenti – ricorda Marcello Pacifico, presidente nazionale Anief e segretario confederale Cisal – senza che si dia un peso adeguato al tessuto sociale: le zone ad alto tasso migratorio, le scuole isolate dal resto del territorio, quelle ad alta criminalità, oppure dove il tasso di abbandono è molto sopra la media, necessitano di uscire dalla logica della somministrazione in classe delle fredde schede da compilare. Questa logica dell’uniformità a tutti i costi, va sostituita con quella della verifica caso per caso, istituto per istituto: solo in questo modo, procedendo verso un’analisi qualitativa e non più quantitativa, si possono evidenziare e superare i motivi che portano al successo o all’insuccesso formativo”.
“Ecco perché – continua Pacifico – occorre partire dal basso e dalle realtà locali: ritagliando le valutazioni e iniziando da quanto riportato nel Piano dell’offerta formativa di ogni scuola, la quale riporta inevitabilmente la mission formativa dell’istituto collegata alle esigenze del territorio. Sarebbe bene che il Governo prenda atto di certe indicazioni, provenienti anche da diverse decine di accademici di tutto il mondo: il primo passo da compiere è quello di andare a revisionare tutti i passaggi della Legge 107/15 che legano la valutazione standardizzata degli istituti e di chi vi opera, in particolare i docenti, attraverso le risultanze dei test Invalsi”.
“In secondo luogo, si farebbe bene anche rivedere il decreto legislativo n. 62 della Buona Scuola, contenente le nuove 'norme in materia di valutazione e certificazione delle competenze nel primo ciclo ed esami di Stato', nella parte in cui alle superiori rende i test Invalsi decisivi ai fini dell’ammissione agli Esami di Stato. Sempre per quanto riguarda la nuova maturità, la delega introduce la possibilità di far ammettere gli studenti anche nel caso in cui riportino un’insufficienza in una disciplina, previa deliberazione motivata del consiglio di classe: se si somma questa operazione con l’incidenza diretta sull’ammissione delle prove Invalsi, si conferma la volontà di ridurre lo spessore del titolo di studio e portarlo progressivamente verso la perdita del suo valore legale: un’eventualità – conclude il sindacalista Anief-Cisal – che affosserebbe tanti alunni e studenti, facendo diventare classista anche l’istruzione pubblica”.
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