Aveva ragione il sindacato a intravedere nuvole grigio-nere all’orizzonte: per il futuro prossimo, il Governo Gentiloni sembra orientato a fare peggio della riforma pensionistica dell’ex ministro Elsa Fornero, approvata durante il Governo Monti, visto che nel 2019 la proiezione era quella di lasciare il servizio lavorativo a 66 anni e 11 mesi: invece, l’orientamento è fare cifra tonda, arrivando a quota 67. Per fare questo, c’è già un decreto interministeriale in via di approvazione. Poi, nel tempo, si salirà sempre più: fino a 70 anni, nel 2051. Ma il prezzo più alto da pagare sarà quello dell’importo risibile dell’assegno di quiescenza: in media, meno di mille euro al mese.
Marcello Pacifico (Anief-Cisal): viene da chiedersi, come faranno gli insegnanti, tra i lavoratori a maggiore rischio burnout, a convivere con l’innalzamento progressivo dei parametri pensionistici. È sintomatico che in questi giorni chi ha potuto aderire all’Ape Social, pochi per la verità nella scuola poiché si è ristretta l’agevolazione ai soli maestri della scuola dell’infanzia, non ci abbia pensato due volte. E si tratta di lavoratori di età attorno ai 63-64 anni. Come si farà a tenere duro dietro la cattedra fino a 70 e più anni, rimane un mistero. Come rimane difficile spiegare loro che i contributi versati per una vita serviranno a mantenere in vita il sistema. E non a loro che li hanno versati.
Attraverso il sindacato, è possibile chiedere una consulenza personalizzata a Cedan per sapere se si ha diritto ad andare in quiescenza prima dei termini contributivi e di vecchiaia previsti dalla legge e per scoprire il valore dell’assegno pensionistico. Oltre che ulteriori servizi. Per contatti, ci si può collegare al sito internet.
Va apprezzata per la chiarezza espositiva, pur nella sua durezza nei contenuti, l’audizione alla commissione Affari costituzionali della Camera tenuta dal presidente dell’Istat, Giorgio Alleva: tenendo conto degli scenari demografici e delle casse sempre meno gonfie dell’Inps, ha confermato che l’età minima per la pensione di vecchiaia aumenterà a breve, dal 1° gennaio 2019, «dai 66 anni e 7 mesi, in vigore per tutte le categorie di lavoratori dal 2018, a 67 anni». L’aspettativa di vita crescente, inoltre, prevede che ogni due anni, si passerà «a 67 anni e 3 mesi dal 2021».
Per i successivi aggiornamenti biennali, a partire dal 2023, si prevede un incremento di due mesi ogni volta. Con la conseguenza che «l’età pensionabile salirebbe a 68 anni e 1 mese dal 2031, a 68 anni e 11 mesi dal 2041 e a 69 anni e 9 mesi dal 2051». Ma forse su questo punto il presidente dell’Istat si è tenuto anche “stretto”: qualche settimana fa, infatti, dall’ufficio comunicazione dello stesso istituto nazionale di Statistica è trapelato che per i giovani lavoratori l’età per lasciare il lavoro potrebbe salire ulteriormente, addirittura attestandosi fino attorno ai 74 anni. Anche sul breve periodo, c’è poco da essere soddisfatti: il Governo Gentiloni sembra orientato a fare peggio della riforma pensionistica dell’ex ministro Elsa Fornero, approvata durante il Governo Monti, visto che nel 2019 la proiezione era quella di lasciare il servizio lavorativo a 66 anni e 11 mesi. Invece, con un decreto interministeriale in via di approvazione, si vuole ora fare cifra tonda, arrivando a quota 67.
Alleva si è poi soffermato sull’aumento della precarietà, che ha come prime “vittime” i giovani: «Tra il 2008 e il 2016, nella classe 15-34 anni, la quota di dipendenti a termine e collaboratori, passa dal 22,2% al 27,8%», con punte del 35% per i laureati. E «tra le donne il 41,5% delle occupate con lavoro atipico è madre». Cosa comporterà questa contribuzione a intermittenza per gli attuali 25-34enni? Che farà maturare pensioni più basse, si è limitato a dire il presidente dell’Istat.
Ma basse quanto? “Al momento non è dato saperlo con precisione – spiega Marcello Pacifico, presidente nazionale Anief e segretario confederale Cisal -, tuttavia è pressoché certo che le attuali pensioni diventeranno un termine di paragone impossibile da praticare. Nel senso che l’importo dell’assegno di quiescenza sarà molto più vicino alla pensione sociale che agli ultimi stipendi percepiti. Quindi, per intenderci, in media stiamo parlando di pensioni sicuramente sotto i mille euro al mese. E nemmeno di poco”.
“A pesare in negativo sulla loro consistenza, oltre che i contributi ridotti – continua il sindacalista - è indubbiamente anche nuovo il modello di calcolo contributivo penalizzante. Il risultato di questo progetto perverso, che ha detta del Governo sarebbe inarrestabile, è che si lavorerà per una vita, circa 45 anni, per poi raccogliere da anziani poco più di quello che oggi hanno i pensionati con nemmeno un giorno di lavoro. C’è poi da mettere, sulla bilancia, lo scadimento dell’attività lavorativa. Tra i 65 e i 70 anni, se non oltre, infatti, quante energie si possono ancora spendere nel corso dall’attività lavorativa? Nella scuola, a esempio come farà una maestra a gestire oltre 20-25 alunni? Il problema è notevole, visto che già oggi deteniamo il corpo docenti più vecchio dell’area Ocse (3 su 4 hanno oltre 50 anni, il doppio dell’area Ocse) e malpagato della PA (meno di 30mila euro lordi annui)”.
“Viene allora da chiedersi, come faranno gli insegnanti, che è anche una delle categorie professionali a maggiorerischio burnout, a convivere con l’innalzamento progressivo dei parametri pensionistici. Il malessere è già evidente oggi, figuriamoci con questi parametri. È sintomatico che in questi giorni chi ha potuto aderire all’Ape Social, pochi per la verità, almeno nella scuola poiché si è ristretta la possibilità ai soli maestri della scuola dell’infanzia, non ci ha pensato due volte. E si tratta di lavoratori di età attorno ai 63-64 anni. Come si farà a tenere duro fino a 70 e più anni rimane un mistero. Come rimane difficile da spiegare loro che i contributi versati per una vita serviranno a mantenere in vita il sistema. E non più chi la ha versati, che evidentemente non merita ormai una pensione adeguata e proporzionale a quanto elargito nel corso dalla propria vita lavorativa”, conclude Pacifico.
Attraverso il sindacato, è possibile chiedere una consulenza personalizzata a Cedan per sapere se si ha diritto ad andare in quiescenza prima dei termini contributivi e di vecchiaia previsti dalla legge e per scoprire il valore dell’assegno pensionistico. Oltre che ulteriori servizi. Per contatti, ci si può collegare al sito internet. Per avere tutte le indicazioni necessarie è possibile anche scrivere una e-mail all’indirizzo Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.. Oppure chiamare al tel. 091.424272 dal lunedì al venerdì dalle ore 9.00 alle ore 13.00, mercoledì dalle ore 14.00 alle ore 18.00.
PER APPROFONDIMENTI (a cura dell’Ufficio Studi Anief):
I requisiti per andare in pensione nel 2017: dipendenti pubblici
Pensione di vecchiaia
Uomini e donne – nel 2017 con 66 anni e 7 mesi di età (con almeno 20 anni di contributi)
Donne – nel 2017 con 41 anni e 10 mesi di contributi
Uomini – nel 2017 con 42 anni e 10 mesi di contributi
Uomini e donne assunti dal 1/1/1996 in possesso di anzianità contributiva minima di 20 anni e importo minimo pari 2,8 volte l’assegno sociale – nel 2015 con 63 anni e 7 mesi di età.
Le differenze nel corso degli anni, a seguito della riforma Monti-Fornero (sempre nel pubblico impiego):
PENSIONE DI ANZIANITÀ
Uomini Donne
2012 42 anni e 1 mese 41 anni e 1 mese
2016 42 anni e 10 mesi 41 anni e 10 mesi
2017 42 anni e 10 mesi 41 anni e 10 mesi
2018 42 anni e 10 mesi 41 anni e 10 mesi
2019 43 anni e 2 mesi 42 anni e 3 mesi
2020 43 anni e 2 mesi 42 anni e 3 mesi
2025 43 anni e 11 mesi 42 anni e 11 mesi
2030 44 anni e 4 mesi 43 anni e 4 mesi
2031 44 anni e 6 mesi 43 anni e 6 mesi
PENSIONE DI VECCHIAIA
2012 66 anni
2016 66 e 7 mesi
2017 66 e 7 mesi
2018 66 e 7 mesi
2019 66 e 11 mesi
2020 66 e 11 mesi
2025 67 e 8 mesi
2030 68 e 1 mese
2031 68 e 3 mesi
Tutte le informazioni sull’accesso pensionistico anticipato.
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