Dopo due lustri di blocco sconsiderato, le donne tornano ad andare in pensione di vecchiaia quasi come gli uomini: tantissime erano state intrappolate nello scalone della legge Monti-Fornero per assicurare un risparmio pubblico di quasi 9 miliardi. È la stessa legge che dal 2012 ha portato a 67 anni di età il tetto della pensione, introducendo l’assurda associazione alla speranza di vita e facendo cadere ogni forma di anticipo, se si eccettua un anno per la pensione di anzianità, rispetto agli uomini. E nell’andare in pensione, cosa che negli anni Novanta si verificava in media a 58 anni, le donne hanno anche scoperto di avere un trattamento economico sempre più vicino all’assegno sociale: in media, percepiscono poco più di 700 euro lorde al mese, mentre gli uomini stanno sopra i mille.
Marcello Pacifico, presidente nazionale Anief: “Quando si parla di riforma previdenziale è da questi dati che bisogna ripartire. Non si può lavorare una vita, in condizioni precarie, stipendi a singhiozzo e molto al di sotto delle medie europee e Ocse, per poi ritrovarsi con una pensione da fame. L’emblema di questa discrepanza è rappresentato dai lavoratori della scuola: più dell’80% è composto da donne, oltre 200mila precarie, che entrano in ruolo quasi sempre dopo anni e anni di supplenze, con il calcolo degli anni di precariato valutati solo in parte, dei compensi che alla lunga risultano dimezzati rispetti ad un collega tedesco o del Nord Europa. E gli ultimi anni di servizio sono pure costrette a curarsi da patologie da stress, non riconosciute ma palesemente ricollegabili alla professione. Donne, come indicato di recente dal Cnel, che non possono nemmeno contare su servizi di cura e di assistenza diretta. Donne ipertitolate, con esperienza e competenze da vendere, ma senza prospettive professionale e di carriera, tanto che pur di entrare di ruolo accettano di spostarsi a centinaia di chilometri e di rimanervi per un quinquennio in presenza di cattedre libere vicino casa. Poi, a quasi 70 anni, si mandano in pensione con poco più dell’assegno minimo”.
L’onda lunga della riforma Fornero è arrivata. Ne fanno le spese tutti gli italiani, ma soprattutto le donne. Prima del 2012, ricorda La Repubblica, “due terzi dei pensionati di vecchiaia era donna, un terzo uomini. Poi la curva si è invertita. A dieci anni dalla riforma del 2011, nata per sanare i conti pubblici, si può dire che il conto si è scaricato proprio sulle donne. In 400 mila, si legge nel Rendiconto Inps, intrappolate dagli scaloni dell’età per un risparmio di ben 8,9 miliardi. Ecco spiegato dunque quel balzo del +70% nelle pensioni di vecchiaia registrato da Inps nel 2020 sul 2019”.
L’ASSEGNO TAGLIATO
Ad accedere alla pensione fuori tempo massimo “è la ‘classe 1953’ delle donne che hanno compiuto 67 anni giusto l’anno scorso, libere di lasciare il lavoro”. Ma la beffa delle beffe è quella che quelle donne hanno subito ricevendo il primo assegno di quiescenza. “Nel 2020 la pensione di vecchiaia vale in media 740 euro lordi al mese per le donne contro 1.079 degli uomini. Nel settore privato la differenza è abissale: 737 contro 1.439 euro, la metà”.
L’ESEMPIO DELLA SCUOLA
Anief ricorda che nella scuola le donne, che rappresentano la stragrande maggioranza del personale, sono non solo malpagate ma si vedono assegnare una ricostruzione di carriera non completa, entrano in ruolo quasi sempre diventate ‘anta’ e in alto numero si ritrovano a lavorare a centinaia di chilometri da casa, anche per colpa di algoritmi errati e norme sul reclutamento troppo rigide, che hanno toccato l’apice dell’assurdo nel recente vincolo di permanenza di cinque anni nella sede di destinazione, derivante dalla Legge 159/2019, che non fa presentare nemmeno la domanda di passaggio di ruolo o di assegnazione provvisoria.
LE CONTRADDIZIONI
Quindi non solo non vengono assunte in ruolo dopo 36 mesi di supplenze, come l’Unione europea chiede da 22 anni, così come ribadito dal Comitato dei diritti sociali europei, che ha di recente accolto pure il ricorso Anief n. 146/2017 sull’illegittimità della reiterazione dei contratti a termine: quando vengono finalmente stabilizzate, devono anche subire l’onta dello stipendio modesto, che con la pensione diventa da fame. E l’obbligo a rimanere in servizio fino ormai quasi a 70 anni proprio nella scuola è una contraddizione in termini: è scientificamente dimostrato, infatti, che il burnout colpisca il personale scolastico in percentuali altissime. Diventa indispensabile che l’Ape Social, oggi limitato alle educatrici e maestre di nidi e scuole dell’Infanzia, venga allargato a tutti i lavoratori della scuole. E che vengano cancellate le decurtazioni-ricatto contenute nell’Opzione donna che arrivano a tagliare l’assegno di quiescenza in media di un terzo, quindi di 600 euro al mese.
PACIFICO: SERVE UNA SVOLTA
“La fine di ‘Quota 100’ – commenta il leader dell’Anief Marcello Pacifico - è un altro brutto segnale: questo modello, seppure in cambio di una riduzione della pensione, ha comunque garantito negli ultimi tre anni un’opportunità di anticipo pensionistico a partire dai 62 anni di età. La soglia che Anief chiede da tempo per permettere a chi opera in una condizione di rischio, anche biologico e pure questo non riconosciuto, di potere accedere alla meritata pensione poco dopo i 60 anni. Non dimentichiamo che in Italia abbiamo ormai la classe docente più vecchia al mondo. Serve una politica di ampio raggio che permetta alle donne di accedere al ruolo con stipendi degni di questo nome e di svolgere la professione avvalendosi di sgravi fiscali e dell’accesso alla pensione prima dell’insorgenza delle patologie da stress da lavoro. È una politica di cui beneficerebbero le lavoratrici, ma alla lunga anche lo Stato perché alla lunga sgraverebbe il carico sanitario”.
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