Lo scorso anno, la legge di bilancio di fine 2014 tagliò al funzionamento ordinario degli atenei ben 98 milioni con modalità progressive. Nello stesso periodo, il governo Renzi ha approvato il nuovo riparto del Fondo di finanziamento ordinario alle università statali, legandone una parte alla qualità e tipologia dei servizi offerti dagli atenei agli studenti. Ma decretando, in tal modo, la fine di tante università del Sud e di tutte quelle collocate in contesti svantaggiati. Intanto, le tasse sono triplicate, le iscrizioni crollano e l’investimento nazionale rispetto al Pil rimane in fondo alla classifica Ocse.
Marcello Pacifico (Anief-Cisal): basta con le manovre spot. Per rilanciare l’Università italiana, serviva prima di tutto andare a rivedere la Legge 240/2010, che ha sancito la precarizzazione del personale accademico e cancellato la figura del ricercatore a tempo indeterminato, che ha bisogno di stabilità. Invece tanti di loro hanno tra i 40 e i 50 anni, svolgono attività scientifica da tempo, continuano a stipulare solo contratti a termine. E di investimenti veri non si parla. Come si fa a pensare di risolvere tutto assumendo un po’ docenti?
Sull’università pubblica italiana si continua a fare il gioco delle tre carte: la stesura definitiva della Legge di Stabilità 2016, con gli emendamenti introdotti alla Camera, in procinto di essere definitivamente approvati a Palazzo Madama, prevede un incremento del fondo ordinario per gli atenei pari a 6 milioni in più il prossimo anno e a 10 milioni annui dal 2017 (articolo 1, comma 206, Piano straordinario per la chiamata di professori universitari ordinari), i quali potranno servire per assumere alcune centinaia di docenti accademici di prima fascia. Peccato che esattamente dodici mesi fa, con la correspettiva legge di bilancio pubblico di fine 2014, sempre questo Parlamento abbia introdotto tagli ben più corposi al medesimo fondo di funzionamento ordinario dell’Università pubblica, corrispondenti a 98 milioni da cancellare in tre anni dal 2016. Il saldo, quindi, rimane fortemente in negativo.
Ma non è tutto. Perché sempre a fine 2014 il ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca, Stefania Giannini, ha firmato e pubblicato il decreto con il nuovo riparto del Fondo di finanziamento ordinario alle università statali e sul “costo standard” di formazione per studente in corso, legando per la prima volta lo stanziamento del 20% delle risorse pubbliche agli atenei non più ai tradizionali criteri, ma alla qualità e alla tipologia dei servizi offerti agli studenti. Destinando in tal modo le Università collocate in contesti più svantaggiati, con maggiori abbandoni e sempre meno iscrizioni, concentrati al Sud, ad una lenta agonia.
Tutto ciò è avvenuto facendo finta di dimenticare che appena il 15% tra i cittadini italiani tra i 25 e i 64 anni ha conseguito un titolo di studio universitario, rispetto ad una media Ocse più che doppia, il 32%. Con il futuro che non promette nulla di buono, perché dal 2008 le iscrizioni agli atenei risultano in perenne calo e rispetto al 2005 i diplomati che proseguono gli studi si sono ridotti del 27,5%. Chi conosce l’Università lo sa bene: sono “dati che all’estero farebbero tremare i governi ed esigerebbero un’analisi rigorosa delle cause e una repentina inversione di rotta”. Solo che per il Governo questi dati non bastano a comprendere che siamo in una situazione da allarme rosso: in linea con quanto detto dal premier Renzi in autunno, quando annunciò l’intenzione di realizzare a breve un bando per l’assunzione di 500 professori universitari e mille ricercatori, si pensa di risolvere i mali dell’Università italiana attraverso provvedimenti spot.
“Invece di legiferare nuovo sistema di reclutamento e l’abbattimento del precariato cronico di chi opera nei nostri atenei – dice Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario confederale Cisal – si preferisce gettare il solito fumo negli occhi dell’opinione pubblica. Per rilanciare l’Università italiana, serviva prima di tutto andare a rivedere la Legge 240/2010, che ha sancito la precarizzazione del personale dell’Università e cancellato la figura del ricercatore a tempo indeterminato: eppure è una figura centrale per migliorare gli esiti dei nostri atenei, per questo hanno bisogno di stabilità. Invece tanti di loro hanno tra i 40 e i 50 anni, svolgono attività scientifica da tempo, ma continuano ad essere lasciati nell’incertezza professionale facendogli stipulare solo contratti a termine. Ma i ricercatori, che sono il cuore pulsante dell’Università italiana, vanno sostenuti. Dando loro l’opportunità di accedere a dei concorsi per passare alla docenza”.
Perché la Legge 240 del 2010 è stata approvata anche in un momento di forte ricambio del turn over, derivante a sua volta dai provvedimenti limitativi della fascia di età di permanenza in servizio dei professori universitari (70 anni), di risanamento finanziario dei debiti contratti dagli Atenei e di continua riduzione delle risorse erogate alle università. Che così hanno abusato, in cambio di un mero rimborso spese, di insegnanti esperti e cultori delle varie materie. Con il risultato che gli atenei sono andati ben oltre il 5% massimo consentito. E nello stesso periodo le tasse d’iscrizione richieste dagli atenei agli studenti, in particolare quelli fuori corso, sono aumentate tra il 25% e il 100%. Chissà perché poi il numero di laureati non sale.
“Bisogna, allo stesso tempo, abbandonare una volta per tutte l’equivoco di associare il merito con il numero di pubblicazioni, perché la valenza di un ricercatore e di un docente accademico va verificata andando a misurare l’impatto scientifico del suo operato. Non lo dice il sindacato, ma la Carta europea dei ricercatori, la Raccomandazione della Commissione delle Comunità europee n. 251 e del Codice di condotta per l’assunzione dei Ricercatori. Occorre infine ricordarsi che qualsiasi novità legislativa è puramente inutile non si torna ad investire nel settore. Perché è un dato che parla da solo quello sull’Italia posizionata trentesima su 33 paesi Ocse per spesa nell’Università. E addirittura ultima – conclude Pacifico – per percentuale riferita al Pil”.
Anief-Cisal ricorda che lo Stato italiano spende per l’Istruzione solo il 9,19% delle entrate. Contro l’11,8% della media Ue, il 2,61% in meno. Si tratta di numeri ufficiali che, purtroppo, non sorprendono, alla luce dei tagli forsennati degli ultimi anni: in Italia la spesa pubblica pro capite per l’istruzione è pari a 1.103,89 euro l’anno, a cospetto di 1.511,04 della media Ue. Rispetto ai nostri paesi più vicini, dell’Unione, spendiamo circa il 27% in meno l’anno.
Per approfondimenti:
Corsi di laurea a rischio «salvati» dai professori a contratto (Corriere della Sera)
Università, 500 prof in arrivo (anche dall’estero) e 1.000 ricercatori in più (Corriere della Sera)
Renzi, il populismo e l’università italiana (Mente politica)