A giorni il premier Giuseppe Conte ufficializzerà per gli italiani l’avvio della ‘Fase 2’, ossia la graduale riapertura del Paese con il ritorno al lavoro, almeno per una parte dei cittadini italiani, già a partire dal prossimo 4 maggio. Prima, però, dovrà sentire il parere dei vari comitati di esperti che si sono creati negli ultimi giorni, anche in seno al MI. Di certo, la scuola non dovrebbe essere coinvolta in questa fase, almeno per la primissima parte, “eccetto per gli esami di maturità, a condizione che si possano svolgere in sicurezza”, specifica la stampa specializzata. Da qualche giorno, da più parti, anche sociali, sta intanto crescendo la richiesta di accelerare i tempi anche per la riapertura degli istituti scolastici. Perché col ritorno al lavoro, si pone il problema delle famiglie che non potranno più prendersi cura dei figli che restano a casa, essendo sospesi i servizi educativi per l’infanzia e le attività didattiche. A ciò si aggiunga il fatto che i nonni non possono farsene carico, considerato che gli anziani sono i soggetti più a rischio. E allora? Facciamo come in Francia dove le scuole riapriranno dall’11 maggio? Marcello Pacifico (Anief): “Non prendiamo decisioni avventate. Si rischierebbe di rovinare tutto, mettendo a repentaglio la salute dei più giovani. Ma non solo: è bene ricordare che due insegnanti su tre sono over 50, quindi più fragili dinanzi agli effetti terribili del Covid-19. Fare finta di nulla sarebbe molto grave”.
Sale la pressione del “popolo” di chi vorrebbe che l’Italia tornasse abile ed efficiente con l’inizio di maggio. Secondo La Repubblica “il problema è stato posto da Antonio De Caro, a nome di tutti i sindaci, nell’ambito del confronto tra Governo, Regioni e Enti locali”. Sembra che fino adesso nessuna soluzione è stata adottata, ma diverse ipotesi rimangono “sul tavolo. Secondo il presidente dell’Unione delle Province e sindaco di Ravenna, Michele De Pascale, “con la riapertura delle imprese e non delle scuole, rischiamo di produrre il più grande arretramento in termini di lavoro femminile della storia della Repubblica. Vanno trovate le soluzioni per fare ripartire almeno in parte i servizi educativi”. Tra le ipotesi figurano l’apertura delle scuole solo per i bambini i cui genitori lavorano entrambi, ma anche il ricorso a centri famiglia, campi scuola e il Terzo settore. Il ministro per le Pari opportunità e la Famiglia Elena Bonetti ha già annunciato la volontà di prolungare il congedo specifico, in aggiunta a quello parentale, e il bonus baby-sitter e di concedere un assegno per ogni figlio fino a 14 anni.
L’Anief si continua a schierare apertamente contro questa tendenza che predilige di considerare le necessità di tutti, meno quelle degli studenti, dei docenti e del personale della scuola. Riportare nelle strade e nelle scuole più di otto milioni di alunni e un milione e 300 mila tra insegnanti e personale significa solo una casa: che la pandemia è terminata. Perché, altrimenti, se vi sono ancora dei pericoli fondati o minimi di contagio è assurdo pensare di mandare in giro e a contatto per tante ore al giorno così tante persone. A dirlo, tra l’altro, sono tutti i virologi e medici specializzati.
Solo ieri, il dottor Franco Locatelli, presidente del Consiglio superiore di sanità e componente del Comitato tecnico-scientifico, in conferenza stampa alla Protezione Civile, ha detto che “la scelta di mantenere l'interruzione di didattica frontale è dettata dal fatto che una riapertura delle scuole con il ripristino delle attività produttive avrebbe causato di andare oltre l'indice di contagiosità. Abbiamo fatto la valutazione – ha aggiunto Locatelli - di evitare le aggregazioni, mantenere il distanziamento fisico. Nei modelli sviluppati una riapertura delle scuole in concomitanza con il ripristino delle attività lavorative avrebbe comportato certamente l'andare oltre, e non di poco, il valore di 1 per l'indice di contagiosità. Abbiamo consegnato questa valutazione al Governo a cui spettano le decisioni”.
La domanda che poniamo al Governo è: poiché il diritto alla salute dei cittadini è uno dei principi cardine della nostra Costituzione, come quella di qualsiasi Paese moderno, chi si può prendere la responsabilità, con tutti i rischi che comporta, di aprire le scuole? “Riteniamo – commenta Marcello Pacifico, presidente nazionale Anief – che anche la decisione di far svolgere gli esami di maturità in presenza debba essere ponderata e valutata almeno mille volte”.
A Viale Trastevere starebbero pensando invece seriamente allo svolgimento negli istituti del colloquio orale con il quale si valuteranno gli studenti al termine della scuola secondaria di secondo grado. La motivazione sarebbe quella che per il 17 giugno, data di inizio della maturità, quasi tutte le regioni potrebbero essere “a contagio zero”, la soglia tanto attesa per far scattare un ritorno alla seminormalità in condizioni di sicurezza molto diverse a quelle alle quali si era abituati precedentemente all’emergenza. Inoltre, per quell’evento si ospiteranno un numero ristretto di persone per volta: quindi, le scuole potrebbero garantire il rispetto di distanza di sicurezza e norme igieniche per poter svolgere il lavoro.
Anief ribadisce forti perplessità verso chi sostiene il ritorno a scuola prima di settembre. Chi garantirà che davvero per la metà di giugno avremo raggiunto la soglia del contagio zero? Cosa potrebbe accadere se in una scuola dovesse registrarsi un caso di coronavirus? Come si potrà garantire l’assoluta certezza di contagio in un ambiente frequentato comunque da centinaia di persone tra personale, commissari, presidente, studenti e i familiari e gli amici dei maturandi che avrebbero comunque diritto ad assistere all’esame in presenza? Cosa accadrà se gruppi di studenti si dovessero contagiare portando il virus a casa? Perché, considerando l’anomalia della situazione, nessuno pensa in quali condizioni psicologiche si appresterebbero a svolgere la prova multidisciplinare mezzo milione di studenti? Sono domande che meritano delle risposte ora. Non il 17 giugno.
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