Varie

in Sicilia agli alunni delle primaria il tempo pieno è garantito solo nel 3% dei casi. In Lombardia lo stesso servizio è messo a disposizione del 90% degli iscritti. La forte discrepanza si deve anche e soprattutto alla mancanza delle mense scolastiche. Appello del sindacato ai candidati alla presidenza della Regione: si impegnino sin d’ora, prima di essere eletti, a farle attivare in tutte le scuole siciliane.

Fa un certo effetto sapere, leggendo il libro “C’è un’Italia migliore”, scritto da Nichi Vendola, candidato alle primarie del Pd, che nel 2012 il tempo pieno nella scuola primaria è stato attivato nel 90 per cento degli istituti della Lombardia; mentre in Sicilia dello stesso servizio pubblico ha usufruito appena il 3 per cento degli alunni. E che, di conseguenza, al termine dei cinque anni di scuola primaria i bambini della Sicilia studieranno 430 giorni in meno, che corrispondono a più di 2 anni scolastici.

“Questa enorme disparità – commenta Marcello Pacifico, presidente dell’Anief – se confermata dimostra che nella scuola siciliana occorre attuare il prima possibile adeguati incentivi. Finanziari, ma anche di carattere strategico. Questi serviranno, tra l’altro, ad attivare il servizio mensa. La cui mancanza, in quasi tutte le scuole primarie della Sicilia, è alla base della scarsità di istituti che garantiscono il tempo pieno nell’isola”.

L’Anief si rivolge, quindi, a tutti i candidati alla presidenza e dell’Assemblea della Regione Sicilia, la cui elezione è stata fissata per l’ultima domenica di ottobre: si impegnino sin d’ora, prima di essere eletti, a fare in modo che nel più breve tempo possibile tutte le scuole primarie della regione siano fornite di una mensa. “Solo in questo modo – sottolinea il presidente del giovane sindacato – sarà possibile permettere la permanenza a scuola degli alunni anche nel pomeriggio. Ed in tal modo tentare seriamente di ridurre il fenomeno della dispersione scolastica e di elevare la qualità della didattica”.

C’è, inoltre, un risvolto sindacale non certo marginale su cui vale la pena soffermarsi: “la generalizzata riduzione d’orario – sostiene Pacifico – spiegherebbe anche la penuria di posti di lavoro nelle scuole della Sicilia. Dove, rispetto all’alto bacino d’utenza, l’organico dei docenti e del personale Ata continua ad essere decisamente basso. Incrementare le ore di scuola permetterebbe, quindi, di portare il numero di posti dei docenti, degli amministrativi, dei tecnici e degli ausiliari a livelli più confacenti ad una delle regioni più grandi d’Italia”.

 

È beffardo il destino degli insegnanti che operano in Italia: nel giorno della giornata mondiale del docente, celebrata in più di cento Paesi per ricordare l’alta valenza sociale di questa professione, la Commissione europea pubblica un rapporto dal quale risulta che se si tiene conto del costo dell’inflazione l’entità degli stipendi degli insegnanti italiani è ferma addirittura al 2000. Nel rapporto sugli stipendi e le indennità degli insegnanti e dei presidi in Europea viene, inoltre, rimarcato che il mancato riconoscimento stipendiale “disincentiva l'ingresso nella professione dei soggetti migliori e dunque la qualità dell'insegnamento, fondamentale per la crescita economica”.

Questi dati confermano quanto sottolineato nei giorni scorsi dall’Anief, che nel riportare l’ultima indagine Ocse “Education at a Glance” si era soffermata su un punto: tra il 2000 e il 2010, fatto 100 lo stipendio medio degli insegnanti dei 37 Paesi economicamente più progrediti, lo stipendio in Italia è cresciuto ogni anno a partire dal 2005 solo del 4-5%; mentre nella media Ocde l’incremento è stato del 15-22%. E ciò è avvenuto per colpa della percentuale di spesa del PIL (4,9%) che l’Italia dedica al settore della conoscenza, rispetto alla media Ocse del 6,2%. Risultato: nel 2010, il reddito medio degli insegnanti italiani si colloca intorno a 32.000 euro lordi, in Inghilterra supera i 49.000 euro.

A parte il minore investimento, permane poi la differenza tra stipendio iniziale e di fine rapporto, a testimonianza di una carriera che in Italia non c’è: infatti, nell’accesso alla professione, i docenti italiani si ritrovano in busta paga quanto i colleghi europei (28.000 euro), ma nell’ultimo anno prima della pensione perdono, in media, tra i 7.000 e gli 8.000 euro. Ciò malgrado, in questi ultimi dieci anni i nostri docenti hanno visto aumentare le ore di insegnamento (da 744 a 770, rispetto a una media Ocde da 762 a 782 per la primaria, da 608 a 630 rispetto a una media Ocde da 681 a 704 per la secondaria di primo grado, da 605 a 630 rispetto a una media Ocde da 608 a 658). Inoltre, gli insegnanti italiani lavorano 39 settimane rispetto alle 38 Ocde, 175 giorni rispetto ai 185 Ocde.

Secondo l’Anief non c’è più tempo da perdere. Lo sanno bene anche gli studenti, scesi oggi in diverse piazze italiane per rivendicare una politica che torni ad investire sull’istruzione pubblica, sugli stipendi dei docenti italiani, ormai i più bassi d’Europa, anziché tagliare fondi, risorse e organici per pareggiare i bilanci di amministrazioni pubbliche gestite con superficialità e all’insegna degli sprechi.

Questi dati confermano che se si vuole cambiare il futuro delle nuove generazioni e della nostra società – sostiene Marcello Pacifico, presidente Anief e delegato ai quadri e direttivi della Confedir - bisogna immediatamente ripartire dalla valorizzazione del ruolo del docente. Cancellando una volta per tutte la tendenza degli ultimi anni, durante i quali l’insegnante italiano è stato sempre più mortificato da iniziative peggiorative della qualità della professione”.

Come diversamente si potrebbe commentare – continua Pacifico – la volontà del Parlamento, addirittura bipartisan, di rivedere gli organi collegiali riducendo gli spazi di autorevolezza del collegio dei docenti? Oppure dell’ostinazione nel non considerare l’insegnamento una professione logorante, anzi applicando una tassa sul giorno di malattia, a dispetto degli ultimi autorevoli rapporti nazionali che indicano l’alta percentuale di docenti che si sono ammalati di burnout?  degli ultimissimi autorevoli rapporti nazionali che indicano Per non parlare del fatto che alla mancata possibilità dei docenti italiani di poter fare un minimo di carriera, si è aggiunta nel 2010 la decisione di bloccare pure gli scatti automatici dello stipendio per addirittura tre anni? E che dire del recente concorso a cattedra, che il Miur vorrebbe negare a tutti i laureati degli ultimi 10 anni e ai docenti di ruolo?”.

Ma docenti e precari, che si pagano tutto da soli, sono forse figli di un dio minore?

Per quale motivo i dirigenti scolastici vengono formati dal Miur gravando la spesa sulle scuole, mentre i docenti che acquisiscono gli strumenti e le conoscenze per insegnare, prima attraverso la frequenza delle SSIS ed oggi dei Tfa, sono obbligati a pagare delle tasse proibitive, anche superiori ai 3mila euro?”.

A chiederlo è l’associazione sindacale Anief, dopo essere venuta a conoscenza che le spese di viaggio che i prossimi dirigenti scolastici vincitori dell’ultimo concorso, su cui peraltro si attendono ancora importanti sentenze della giustizia amministrativa, dovranno affrontare per raggiungere Roma, dove il 5 ottobre si svolgerà un seminario formativo utile allo svolgimento della professione, risultano “a carico del bilancio delle scuole”. E nel caso i fondi degli istituti non fossero sufficienti, il Miur ha già allertato i direttori degli Uffici scolastici regionali, chiedendo loro di “adoperarsi per la migliore riuscita dell’iniziativa”.

La discrasia – dichiara il presidente dell’Anief, Marcello Pacifico - diventa ancora più evidente se si guarda ai precari, costretti da decenni ad iscriversi e a frequentare costosissimi corsi di perfezionamento e master annuali per non perdere posizioni nelle graduatorie ad esaurimento. Lo Stato non può usare due pesi e due misure, peraltro con il personale dello stesso settore pubblico: i docenti e i precari non sono figli di un dio minore”.

Basta guardare gli ultimi dati su “Regards sur l'éducation 2012: Les indicateurs de l’OCDE” per comprendere come la fondazione si sia ancora una volta sbagliata. È ora di cambiare, per troppi anni associazioni fantasma o corporative hanno fornito dati inutili.

Sbagliate le conclusioni sul rapporto alunno/studente e sulla percentuale di spesa pubblica dedicata all’istruzione. Altro che troppi soldi: gli investimenti devono ancora arrivare dopo i tagli che hanno cancellato 200.000 posti negli ultimi sei anni anche per colpa di analisi errate, purtroppo ascoltate dalla politica, come ha dimostrato il recente intervento dell’ex ministro Gelmini.

Le spese in rapporto a studente/insegnante sono nella media internazionale, lievemente superiori rispetto al primo ciclo d’istruzione per la media OCDE e UE e altrettanto inferiori rispetto alla scuola superiore, con una forbice che oscilla al massimo, in difetto e in eccesso, intorno ai mille euro.

Anche il PIL dedicato dal governo italiano all’istruzione è tra i più bassi della media: la percentuale di spesa del PIL (4,9%) che l’Italia dedica al settore della conoscenza è inferiore alla media del 6,2%.

È vero che lo studio consta di circa 600 pagine, ma vale la pena leggerle.

Leggi il rapporto

Il precedente comunicato dell’Anief

Come si fa a dire, come ha fatto oggi Attilio Oliva, presidente di Treelle, che “la scuola italiana non ha bisogno di più soldi” perché "la spesa per ogni bambino è tra le più alte d'Europa”?

A smentire quanto detto da Oliva non sono solo i noti dati sugli investimenti che l’Italia dedica all’istruzione, di oltre un punto e mezzo inferiori alla media europea, ma anche quanto riportato alcuni giorni fa dal Rapporto Ocse 2012 “Education at a Glance 2012”, che nel fotografare lo stato della spesa per la scuola nei Paesi Ocse ha confermato proprio la scarsa propensione dell’Italia: per l’Ocse, infatti, bisognerebbe “aumentare gli investimenti in programmi per l'infanzia e mantenere i costi ragionevoli per l'istruzione superiore, al fine di ridurre le disuguaglianze, aumentare la mobilità sociale e migliorare le prospettive di occupazione delle persone”.

Il presidente di Treelle, inoltre, nel dire che i docenti italiani sono uno ogni 11,3 alunni contro i 21,5 della Francia e i 12,6 tedeschi ha dimenticato un particolare: la presenza nel nostro sistema scolastico, a differenza degli altri Paesi, di circa 100mila docenti di sostegno. I quali rappresentano un valore aggiunto fondamentale per la qualità della nostra istruzione e la formazione dei suoi studenti disabili e più in difficoltà. Dei docenti di sostegno andiamo fieri. Da chi, invece, sostiene che per colpa loro i nostri docenti sono “pagati la metà di quella dei colleghi tedeschi” sarebbe bene prendere le distanze.

“Le affermazioni del presidente Attilio Oliva – afferma Marcello Pacifico – non ci sembrano pronunciate da chi vuole il bene della scuola italiana. Ma da chi cerca di divulgare, come un ‘disco rotto’, la posizione di Confindustria. Dire il contrario dell’evidenza e di quello che esprimono numeri inequivocabili, riportati da tutti i rapporti internazionali, non merita ulteriori commenti. Meno male che qualsiasi associazione e sindacato della scuola, ma anche coloro che non vi operano, sanno bene che gli investimenti nella scuola italiana sono stati ridotti al punto da mettere gli istituti in ginocchio. A tal proposito – conclude Pacifico - saremmo curiosi di sapere cosa pensa su questo argomento Giorgio Rembado, presidente Anp e molto ‘vicino’ all’associazione Treelle”.