Perché lo Stato continua a negare “voci” stipendiali dalla busta paga dei docenti precari? A chiederlo all’amministrazione, senza ricevere risposta, è da oltre dieci anni l’Anief. Lo stesso sindacato che, laddove gli insegnanti chiedono con convinzione la salvaguardia dei loro diritti, si rivolge al giudice. Il quale, una volta appurata la cattiva condotta della parte pubblica, non può fare altro che condannarla e risarcire i docenti che hanno presentato ricorso. È andata in questo modo anche ad una maestra di scuola primaria, che si è rivolta al tribunale di Modena dopo essersi accorta di avere sottoscritto cinque anni di contratti a tempo determinato, con lo stipendio però privato ogni mese di 164 euro per la sottrazione indebita, come a tutti i docenti precari, della Retribuzione professionale docenti. Il fatto che fosse priva di specializzazione su sostegno non ha influito sul recupero dei soldi sottratti. Facendo riferimento alla Cassazione italiana e alla Direttiva 1999/70/CE, il giudice ha condannato il Ministero ad un corposo risarcimento della docente, pari ad oltre 5.500 euro, più la rivalutazione monetaria, essendo trascorsi otto anni dalla prima supplenza stipulata, oltre “il pagamento delle spese di lite, liquidate in € 118,50 per esborsi ed € 2.100,00 per compensi, oltre rimb. forf., IVA e CPA, da distrarsi ex art. 93 c.p.c.”.
Marcello Pacifico, presidente nazionale Anief, “ricorda che tutti, a partire dai supplenti con pochi giorni di servizio, hanno pieno diritto alla riscossione di RPD e CIA mensili: invitiamo gli interessati a ricorrere con i nostri legali, anche i supplenti “Covid” pure loro privati ogni mese di una cifra che va da circa 70 a 170 euro al mese. Per verificare quanto possono recuperare hanno la possibilità di utilizzare il nostro Calcolatore online che gratuitamente verifica la somma”.
Il giudice ha esaminato la situazione riguardante la docente che aveva “stipulato contratti a termine durante gli anni scolastici 2014/2015, 2015/2016, 2016/2017, 2017/2018, 2018/2019 e 2019/2020”, senza però mai percepire la retribuzione professionale docenti (pari a 164 euro lordi mensili), sebbene tale indennità fosse prevista dall’articolo 7 del CCNL del 15.03.2001 ed assegnata invece come prassi agli insegnanti di ruolo. Prendendo come riferimento l'ordinanza della Corte di Cassazione n. 20015/2018, il giudice ha applicato il “principio di non discriminazione sancito dalla clausola 4 dell'accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE”, che “attribuisce al comma 1 la retribuzione professionale docenti a tutto il personale docente ed educativo, senza operare differenziazioni fra assunti a tempo indeterminato e determinato”.
Quanto alla carenza del titolo di studio, ovvero della “specializzazione per l’insegnamento di sostegno”, lo stesso Tribunale ha indicato di “aderire al migliore orientamento di merito in materia di abilitazione all’insegnamento, secondo cui “la mancanza del titolo di abilitazione all’insegnamento non rientra tra le caratteristiche delle mansioni e delle funzioni esercitate, le quali potrebbero legittimare la disparità di trattamento” di cui alla notissima sentenza della Suprema Corte n°22558/2016, alle cui argomentazioni comunque si rimanda: mutatis mutandis, non sembra revocabile in dubbio che anche la carenza del titolo di studio o della specializzazione non possa giustificare un differente trattamento stipendiale”.
Pertanto, il giudice ha condannato “il Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca al pagamento delle relative differenze retributive, in ragione dei giorni di lavoro effettivamente svolti, quantificabili al momento del deposito del ricorso, in € 5.542,95 oltre interessi legali o, se maggiore, rivalutazione monetaria, ai sensi dell’art. 22 comma 36 l.n.724/1994, relativo ai crediti dei pubblici dipendenti, dalla data di maturazione di ciascun incremento retributivo fino al saldo”. Infine, ha deciso che sempre il Ministero dovrà provvedere “al pagamento delle spese di lite, liquidate in € 118,50 per esborsi ed € 2.100,00 per compensi, oltre rimb. forf., IVA e CPA, da distrarsi ex art. 93 c.p.c.”.
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