Gli insegnanti italiani non guadagnano solo poco, ma devono anche attendere 35 anni di carriera per arrivare all’apice della carriera. A rimarcarlo è l’ultimo Quaderno Eurydice “Insegnanti in Europa: Carriera, sviluppo professionale e benessere”. Lo studio prende il via dallo scarso grado di soddisfazione degli insegnanti europei per gli stipendi percepiti, che diventano ancora più miseri quando confrontano le loro buste paga con quelle dei lavoratori UE con un’istruzione di pari livello. La percezione dei docenti europei di guadagnare poco è stata confermata dalle risposte all’ultimo questionario proposto da TALIS, che ha dato la possibilità agli insegnanti di dichiarare in che misura sono soddisfatti del loro stipendio: “nel complesso, a livello UE, solo il 37,8% degli insegnanti considera il proprio stipendio soddisfacente o molto soddisfacente, con molti paesi che mostrano percentuali inferiori al 30%”.
COSA PENSA IL DOCENTE ITALIANO
Se questa è la percezione del docente medio europeo, è immaginabile cosa possa pensare l’insegnante italiano del suo trattamento stipendiale, già del 30% più basso di quello dei colleghi UE. “In Italia, oltre alla progressione lenta, l’aumento dello stipendio è relativamente modesto rispetto ad altri paesi e gli insegnanti devono lavorare per 35 anni per raggiungere il massimo dello stipendio, che è circa il 50% in più dello stipendio iniziale”, scrive Orizzonte Scuola. Mentre in altri Paesi, come la Francia, il massimo della carriera si raggiunge già dopo una ventina di anni di carriera. E si va in pensione prima.
IL COMMENTO DEL PRESIDENTE ANIEF
Secondo Marcello Pacifico, presidente nazionale Anief, il sindacato che ha appena comunicato lo sciopero generale per il prossimo 6 maggio anche per l’emergenza compensi, “la madre di tutti i problemi sugli stipendi degli insegnanti italiani sta nella presunzione del legislatore di premiarne alcuni, anche con indennizzi una tantum, come si prospetta nell’inapplicabile riforma del reclutamento, della formazione e della valutazione, pensando che in questo modo si incentiva a fare meglio. Ma di cosa stiamo parlando? Nella scuola non può essere importata la politica aziendalista che mette i dipendenti in ‘concorrenza’ per centrare il progetto. Negli istituti scolastici il fine è la didattica e non si può pensare che chi opera meglio al di fuori dell’aula possa meritarsi stipendi maggiori, mentre chi fa lezioni in aula al meglio può guadagnare meno di un operaio non specializzato”.
“A tutti i docenti, come pure agli Ata, va dato ogni fine mese un compenso prima di tutto almeno un punto sopra il costo della vita, invece anche dopo gli aumenti del contratto 2018/2021 continuerà a rimanere oltre 10 punti sotto l’inflazione. Come non si può pensare di pareggiare questo gap andando a verificare come sono andate le ultime prove Invalsi: perché si rischia di assegnare gli incrementi stipendiali a chi ha una situazione di partenza degli alunni migliore, ma non per merito suo. Finiamola, allora, con questo equivoco. La verità è che servono risorse aggiuntive per quasi un milione e mezzi di dipendenti. E anche degli scatti stipendiali aggiuntivi che vadano oltre i 35 anni di carriera, visto che si arriva ormai anche a 43 anni. Parliamo dell’esigenza di dare alla scuola miliardi di euro. Le ‘mance’ per pochi – conclude Pacifico- possono solo esasperare gli animi”.
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