Lo Stato non può essere indifferente dinanzi alla richiesta di un lavoratore che chiede di cambiare sede per avvicinarsi al genitore o al figlio disabile grave: lo ha ribadito la Corte d'appello di Firenze che ha accolto il ricorso del sindacato Anief dando il via libera al diritto al trasferimento di una insegnante alla quale l’amministrazione scolastica aveva negato la precedenza al suo trasferimento, benché motivata dall’assistenza esclusiva del parente di primo grado in stato di disabilità di grado elevato e in presenza di posti vacanti sui quali avrebbe tranquillamente potuto essere assegnata.
“Ancora una volta – dice Marcello Pacifico, presidente nazionale Anief – siamo stati costretti a rivolgerci al tribunale per tutelare i diritti di un lavoratore della scuola al quale era stato negato quel diritto di avvicinamento alla famiglia che già in condizioni non di disagio dovrebbe essere attuato. Dire ‘no’ alla precedenza di un dipendente che ha bisogno di assistere un genitore o un figlio che necessitano del suo aiuto, dopo avere accertato che esistono i posti per accoglierlo in sedi per lui più agevoli, è un atto che non merita commenti ulteriori. Se non la promessa che noi, come sindacato, continueremo a batterci per difendere le ragioni di questi colleghi incomprensibilmente abbandonati nel momento del bisogno”.
“La sentenza deve fare riflettere – commenta Walter Miceli, legale che opera per Anief – perché giunge proprio nelle stesse ore in cui viene firmato un Contratto Integrativo sulla mobilità che ancora una volta non tutela gli insegnanti, negando il diritto di precedenza nei trasferimenti per assistenza ai genitori con disabilità grave. Le motivazioni con cui la Corte d'appello ha bocciato quel contratto non lasciano spazio ai dubbi”.
Nella sentenza, la Corte d'appello di Firenze spiega che risulta "necessario concludere che alla procedura di mobilità di cui è causa debba applicarsi il disposto dell’art. 33 della L. 104/1992. E a maggior ragione si impone una simile conclusione quanto all’art. 601 del D.Lgs. 297/1994, che alla mobilità fa espresso riferimento. D’altra parte, nella materia di interesse, non [può] prescindersi dalla disciplina dettata dalla Direttiva 78/2000, che “stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro” (pacificamente applicabile al rapporto di impiego pubblico, in ragione dell’espressa previsione dell’art. 3), che all’art. 5 si occupa anche della disabilità, essendo il giudice nazionale tenuto all’interpretazione conforme del diritto interno”.
Per i giudici è certo che “le garanzie approntate dal diritto dell’Unione al lavoratore disabile si applichino anche nei casi in cui si faccia astrattamente questioni di discriminazione associata, in cui cioè il lavoratore o la lavoratrice non sia immediatamente portatore del fattore di protezione (nella specie l’handicap), ma assuma (e provi) comunque un trattamento differenziale in ragione della sua relazione con il portatore del fattore, come nel caso dell’handicap potrebbe tipicamente accadere al care giver, il soggetto che si prende cura del disabile, che è ciò che qui specificamente interessa”.
Sempre la Corte toscana ha rilevato che “una tale condizione rientra infatti sicuramente nell’ambito di applicazione delle tutele antidiscriminatorie come ha chiarito la Corte di Giustizia nella sentenza CgUe, 17 luglio 2008, C-303/06 Coleman, secondo cui “il divieto di discriminazione diretta [...] non è limitato alle sole persone che siano esse stesse disabili. Qualora un datore di lavoro tratti un lavoratore, che non sia esso stesso disabile, in modo meno favorevole rispetto al modo in cui è, è stato o sarebbe trattato un altro lavoratore in una situazione analoga, e sia provato che il trattamento sfavorevole di cui tale lavoratore è vittima è causato dalla disabilità del figlio, al quale presta la parte essenziale delle cure di cui quest’ultimo ha bisogno, un siffatto trattamento viola il divieto di discriminazione diretta”.
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L’ESITO DELLA SENTENZA DELLA CORTE
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