I docenti supplenti svolgono il medesimo lavoro dei colleghi di ruolo, con gli stessi doveri e responsabilità, ma i diritti non sono uguali. Perché continuano a ricevere uno stipendio con 164 euro in meno al mese: sono i soldi della retribuzione professionale docenti prevista dall’articolo 7 del CCNL del 15.03.2001, ma che l’amministrazione non si comprende in base a quale criterio assegna solo a chi ha stipulato un contratto a tempo indeterminato. Sulla quota, sempre più giudici continuano ad esprimersi, reputandola estromessa in modo illegittimo: anche a Modena, dove il Tribunale ordinario, sezione Lavoro, ha condannato il ministero dell’Istruzione ad assegnare oltre 2mila euro, più “interessi legali o, se maggiore, rivalutazione monetaria”, ad una maestra che ha stipulato “ripetuti contratti d’insegnamento a tempo determinato”. E non ha nulla a che vedere con il recupero della somma non assegnata il fatto che la docente abbia svolto insegnamento di sostegno senza la specializzazione.
“Questa sentenza – dice Marcello Pacifico, presidente nazionale Anief – conferma che tutti i supplenti, anche del personale Ata, hanno diritto alla riscossione di RPD e CIA mensili: lo stesso discorso vale per i supplenti “Covid”, anche loro privati tutti i mesi di una somma che va da circa 70 a 170 euro al mese. Per verificare quanto possono recuperare da qualche tempo diamo la possibilità di utilizzare, senza alcuna spesa, il nostro Calcolatore online: in tal modo, ogni lavoratore della scuola, anche di ruolo ma con un passato da supplente, può verificare quanto ha diritto a recuperare. È una operazione che può fare un insegnante, ma anche un amministrativo, tecnico, ausiliario o qualsiasi professionalità della scuola italiana.
Secondo il giudice, il ricorso è fondato e va accolto, secondo il principio affermato dall'ordinanza della Corte di Cassazione n.20015/2018: “l'art.7 del CCNL 153/2001 per il personale del comparto scuola, interpretato alla luce del principio di non discriminazione sancito dalla clausola 4 dell'accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE, attribuisce al comma 1 la retribuzione professionale docenti a tutto il personale docente ed educativo, senza operare differenziazioni fra assunti a tempo indeterminato e determinato e fra le diverse tipologie di supplenze, sicché il successivo richiamo, contenuto nel comma 3, alle modalità stabilite dall'art. 25 del CCNI del 31/8/1999, deve intendersi limitato ai soli criteri di quantificazione e di corresponsione del trattamento accessorio”.
“Quanto alla carenza del titolo di studio, ovvero della “specializzazione per l’insegnamento di sostegno”, ritiene questo Tribunale di aderire al migliore orientamento di merito in materia di abilitazione all’insegnamento (vds. C. App. Torino, sent, n°317/2018, RG n°750/2016, Pres. Mariani, Est. Milani) secondo cui “la mancanza del titolo di abilitazione all’insegnamento non rientra tra le caratteristiche delle mansioni e delle funzioni esercitate, le quali potrebbero legittimare la disparità di trattamento” di cui alla notissima sentenza della Suprema Corte n°22558/2016, alle cui argomentazioni comunque si rimanda: mutatis mutandis, non sembra revocabile in dubbio che anche la carenza del titolo di studio o della specializzazione non possa giustificare un differente trattamento stipendiale”.
“Il MIUR va, quindi, condannato al pagamento in favore di parte ricorrente delle differenze retributive”: a questo scopo, il giudice ha indicato “i giorni di lavoro effettivamente svolti, quantificabili al momento del deposito del ricorso, in € € 2.063,28 oltre interessi legali o, se maggiore, rivalutazione monetaria, ai sensi dell’art. 22 comma 36 l.n.724/1994, relativo ai crediti dei pubblici dipendenti, dalla data di maturazione di ciascun incremento retributivo fino al saldo”. Il ministero dell’Istruzione è stato infine condannato “al pagamento delle spese di lite, liquidate in € 1961, oltre rimb. forf., IVA e CPA, da distrarsi ex art. 93 c.p.c.”.
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