Attraverso sei punti, approvati della I Commissione 'Affari costituzionali, della Presidenza del Consiglio e interni', si rivede l'organizzazione degli atenei, la gestione del personale accademico e delle assunzioni: spariscono i concorsi annuali; vengono ridotti i professori ordinari per formare commissioni e settori scientifico-disciplinari; CUN e ANVUR avranno un ruolo attivo sulla valutazione; viene prorogata la validità dell'abilitazione; si elimina l'esperto internazionale dalla commissione; si dà priorità nella valutazione alla produzione scientifica dei neo-assunti ai fini del reclutamento; scendono a dieci le pubblicazioni minime.
Marcello Pacifico (Anief-Confedir): molti punti introdotti dall'emendamento al decreto di riforma erano necessari, è mancato però il coraggio di ripristinare la figura del ricercatore a tempo indeterminato, sul cui ruolo insiste il maggiore carico della didattica e il cui reclutamento, rispetto a quello di associati o ordinari, porterebbe evidenti risparmi di finanza pubblica: sono già più di 40mila i giovani ricercatori che non trovano posto nei nostri atenei. È bene che l'Aula di Camera e Senato riflettano bene su questi punti.
L'Università italiana cambia faccia. A distanza di quattro anni dall'approvazione della Legge 240/2010, la riforma sottoscritta dall'ex ministro dell'Istruzione, Università e Ricerca, Maria Stella Gelmini, un emendamento approvato in I Commissione (Affari costituzionali, della Presidenza del Consiglio e interni) introduce importanti cambiamenti e modifiche al suo assetto organizzativo: spariscono i concorsi annuali; si riduce il numero degli ordinari per formare commissioni e settori scientifico-disciplinari; arrivano nuove regole per la valutazione, sottoposte a parere del CUN e dell'ANVUR, che tengano conto della specificità della materia; viene prorogata la validità dell'abilitazione; si elimina l'esperto internazionale dalla commissione; si dà priorità nella valutazione alla produzione scientifica dei neo-assunti, ai fini dell'autorizzazione al reclutamento negli atenei; scendono a dieci le pubblicazioni minime possedute.
Così replica Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario organizzativo Confedir, alle dichiarazioni di oggi del Ministro dell'Istruzione, Università e Ricerca, Stefania Giannini, sulle stime disastrose del CUN a proposito del dimezzamento del numero di docenti universitari entro il 2018 confermato anche dall’ultima Legge di Stabilità: la sparizione di 10 mila professori si somma alla messa ad esaurimento dei ricercatori, alla scarsità di iscritti, alle difficoltà di arrivare alla laurea. Con effetti disastrosi sull’occupazione.
“Non è un collasso, è semplicemente un disastro”: così replica Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario organizzativo Confedir, alle dichiarazioni di oggi del Ministro dell'Istruzione, Università e Ricerca, Stefania Giannini, sull’allarme lanciato dal Consiglio universitario nazionale a proposito del previsto dimezzamento del numero di docenti universitari entro il 2018.
“Se per il Ministro ‘parlare di collasso è eccessivo’ – continua Pacifico – noi sosteniamo che sul fronte del reclutamento siamo da tempo all’allarme rosso. Come sindacato, siamo d’accordo però con Giannini quando sostiene che ‘i vincoli che sono stati messi vanno ripensati’. Perché non è più possibile utilizzare il blocco del turn over accademico come controllo del bilancio statale da parte del MEF. Il Governo quindi intervenga in fretta per rivedere la proroga del blocco delle assunzioni fino al 2018”.
L’attuale situazione di stallo sul ricambio dei docenti universitari ha origine con la Legge 133 del 2008, attraverso cui il ricambio dei docenti è stato ridotto al minimo. Trova conferma con la Legge 122/2010, nella quale si conferma il 100% delle assunzioni solo a partire dal 2016. Il blocco, anzi l’epurazione, arriva anche per i ricercatori a tempo indeterminato, attraverso la Legge 240/2010, con la categoria posta ad esaurimento.
La scorsa estate il Governo Letta sembrava volesse cambiare il corso delle cose, approvando finalmente un massiccio piano di assunzioni: la Legge 98/2013 aveva, infatti, dirottato 75 milioni di euro dal fondo per i servizi terziarizzati delle scuole al FFO per i concorsi da bandire negli atenei proprio per favorire l’assunzione dei ricercatori al termine delle procedure di abilitazione nazionale. Ma è durata poco: l’ultima Legge di Stabilità ha, infatti, prorogato la riapertura totale delle assunzioni al 2018, dirottando la riduzione dei fondi (-28 milioni per il 2016, -70 milioni per il 2017, -84 milioni per il 2018) alle necessità di cassa del Ministero dell’Economia.
E ora tutti i nodi stanno venendo al pettine. In queste ultime ore il CUN ci ha detto che entro il 2018 il sistema universitario perderà 9.486 professori ordinari; le ultime stime nazionali indicano che l’Università viene sempre più snobbata dai nostri giovani, come confermato dall’Istat, che di recente ha ravvisato un calo di quasi 10mila immatricolazioni (il 3,3%).
E le conseguenze si fanno sentire pure dopo: il Governatore della Banca d’Italia, Vincenzo Visco lancia l’allarme sullo scarso rendimento in termini di redditi lordi dei lavoratori italiani laureati rispetto a quelli dei grandi Paesi europei (-15 punti); il consorzio Almalaurea si sofferma sulle difficoltà crescenti dei laureati nel trovare un impiego: nell’ultimo quinquennio, ad un anno dal titolo si è passati dal 10% al 26,5% di neo-dottori disoccupati.
“L’unica verità – conclude amaramente il presidente Anief e segretario organizzativo Confedir – è che mentre tutti i Paesi al vertice del G8 aumentano gli investimenti per l’Università e la Ricerca, l’Italia per mere esigenze di cassa continua a reiterare sistematicamente le percentuali di blocco del turn-over: il tempo delle promesse è scaduto, se non si vogliono bruciare generazioni intere si passi con prontezza a risanare il sistema accademico”.
Così replica Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario organizzativo Confedir, alle dichiarazioni di oggi del Ministro dell'Istruzione, Università e Ricerca, Stefania Giannini, sulle stime disastrose del CUN a proposito del dimezzamento del numero di docenti universitari entro il 2018 confermato anche dall’ultima Legge di Stabilità: la sparizione di 10 mila professori si somma alla messa ad esaurimento dei ricercatori, alla scarsità di iscritti, alle difficoltà di arrivare alla laurea. Con effetti disastrosi sull’occupazione.
“Non è un collasso, è semplicemente un disastro”: così replica Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario organizzativo Confedir, alle dichiarazioni di oggi del Ministro dell'Istruzione, Università e Ricerca, Stefania Giannini, sull’allarme lanciato dal Consiglio universitario nazionale a proposito del previsto dimezzamento del numero di docenti universitari entro il 2018.
“Se per il Ministro ‘parlare di collasso è eccessivo’ – continua Pacifico – noi sosteniamo che sul fronte del reclutamento siamo da tempo all’allarme rosso. Come sindacato, siamo d’accordo però con Giannini quando sostiene che ‘i vincoli che sono stati messi vanno ripensati’. Perché non è più possibile utilizzare il blocco del turn over accademico come controllo del bilancio statale da parte del MEF. Il Governo quindi intervenga in fretta per rivedere la proroga del blocco delle assunzioni fino al 2018”.
L’attuale situazione di stallo sul ricambio dei docenti universitari ha origine con la Legge 133 del 2008, attraverso cui il ricambio dei docenti è stato ridotto al minimo. Trova conferma con la Legge 122/2010, nella quale si conferma il 100% delle assunzioni solo a partire dal 2016. Il blocco, anzi l’epurazione, arriva anche per i ricercatori a tempo indeterminato, attraverso la Legge 240/2010, con la categoria posta ad esaurimento.
La scorsa estate il Governo Letta sembrava volesse cambiare il corso delle cose, approvando finalmente un massiccio piano di assunzioni: la Legge 98/2013 aveva, infatti, dirottato 75 milioni di euro dal fondo per i servizi terziarizzati delle scuole al FFO per i concorsi da bandire negli atenei proprio per favorire l’assunzione dei ricercatori al termine delle procedure di abilitazione nazionale. Ma è durata poco: l’ultima Legge di Stabilità ha, infatti, prorogato la riapertura totale delle assunzioni al 2018, dirottando la riduzione dei fondi (-28 milioni per il 2016, -70 milioni per il 2017, -84 milioni per il 2018) alle necessità di cassa del Ministero dell’Economia.
E ora tutti i nodi stanno venendo al pettine. In queste ultime ore il CUN ci ha detto che entro il 2018 il sistema universitario perderà 9.486 professori ordinari; le ultime stime nazionali indicano che l’Università viene sempre più snobbata dai nostri giovani, come confermato dall’Istat, che di recente ha ravvisato un calo di quasi 10mila immatricolazioni (il 3,3%).
E le conseguenze si fanno sentire pure dopo: il Governatore della Banca d’Italia, Vincenzo Visco lancia l’allarme sullo scarso rendimento in termini di redditi lordi dei lavoratori italiani laureati rispetto a quelli dei grandi Paesi europei (-15 punti); il consorzio Almalaurea si sofferma sulle difficoltà crescenti dei laureati nel trovare un impiego: nell’ultimo quinquennio, ad un anno dal titolo si è passati dal 10% al 26,5% di neo-dottori disoccupati.
“L’unica verità – conclude amaramente il presidente Anief e segretario organizzativo Confedir – è che mentre tutti i Paesi al vertice del G8 aumentano gli investimenti per l’Università e la Ricerca, l’Italia per mere esigenze di cassa continua a reiterare sistematicamente le percentuali di blocco del turn-over: il tempo delle promesse è scaduto, se non si vogliono bruciare generazioni intere si passi con prontezza a risanare il sistema accademico”.
I dati pubblicati in queste ore da Almadiploma confermano i danni derivanti dalle scarse informazioni sugli studi da intraprendere: il 41% dei diplomati 2012 dichiara di aver sbagliato a scegliere la scuola, così anche gli atenei perdono ‘appeal’. Nel frattempo la disoccupazione tra i 15-24enni sfiora il 40% e spopolano i Neet. Marcello Pacifico (Anief-Confedir): i nostri ragazzi si trovano a scegliere il loro percorso formativo senza adeguata consapevolezza. Per cambiare registro servirebbero dei docenti-tutor. Ma anche anticipare l’inizio della scuola a 5 anni e prevedere per chi non andrà all’università un triennio finale d’alternanza scuola-lavoro.
La mancanza di orientamento scolastico sta producendo danni macroscopici all’Università italiana: rispetto all’anno accademico 2003/04 si sono persi circa 90.000 iscritti ai nostri atenei, quasi il 20%; il tasso di abbandono universitario è ormai del 55%, il più elevato della media Ocse; in alcune fasce d’età gli iscritti che raggiungono la laurea sono oltre 15 punti percentuali sotto la media europea. La progressiva fuga dai banchi accademici, rilevata dalla Commissione Ue, è tale da non poter essere spiegata solo dalle difficoltà economiche delle famiglie. Ce lo dice anche lo studio, realizzato da AlmaDiploma e pubblicato in queste ore, sulle performance negli studi accademici e di occupabilità: analizzando i destini di 72mila diplomati di scuola secondaria superiore negli ultimi cinque anni, il Consorzio di scuole superiori ha appurato che “il 41% dei diplomati 2012 dichiara di aver sbagliato a scegliere la scuola fatta”.
E che la prosecuzione degli studi, hanno scritto i ricercatori di AlmaDiploma, “è una scelta che coinvolge soprattutto i diplomati più brillanti: indipendentemente dalla condizione lavorativa, infatti, risultano iscritti all’università nella misura del 72% (contro il 55% di quelli con voto basso)”. Complessivamente oggi appena “64 diplomati su cento proseguono la propria formazione e sono iscritti ad un corso di laurea”. Ma già a distanza di “un anno dal titolo, per 18 diplomati su cento la scelta universitaria non si è dimostrata vincente: fra coloro che dopo il diploma hanno deciso di continuare gli studi, l’8% ha deciso di abbandonare l’università fin dal primo anno, mentre un ulteriore 10% è attualmente iscritto all’università ma ha già cambiato ateneo o corso di laurea”.
Le conclusioni dell’ampio studio nazionale sono davvero preoccupanti: “di fronte a un Paese che avrebbe necessità di aumentare la soglia educazionale si registra una minore attrazione dei giovani verso lo studio universitario. Nello stesso tempo diminuisce il tasso di occupazione giovanile e cresce quello di disoccupazione (che sfiora il 40% tra i 15-24enni). E diventa sempre più rilevante il numero di coloro che non fanno nessuna scelta e che ricadono nella categoria dei Neet (Not in Education, Employment or Training), giovani che non studiano e non cercano lavoro”.
Secondo Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario organizzativo Confedir, “la colpa di questi numeri disastrosi ha senza dubbio origine nello scarso orientamento formativo che si pratica nelle nostre scuole già a partire dalla secondaria superiore di primo grado. Se il 17,6% dei nostri giovani lascia i banchi prima del tempo, contro una media dei 28 Paesi Ue del 12,7%, è evidente che i nostri ragazzi si trovano anche a scegliere il loro percorso formativo senza adeguata consapevolezza. Occorre quindi investire nei docenti-tutor, esperti ed esentati dalle lezioni, per fare in modo che possano guidare i giovani nella scelta per loro più idonea”.
Il sindacato ritiene che i nostri governanti debbano intervenire con celerità: occorre arrestare il declino culturale e professionale verso cui sono destinate sempre più le nostre nuove generazioni. Anche la Crui ha di recente scritto al premier Renzi, sostenendo, tra le altre cose, che “il Paese non cresce se non si rafforza l’alleanza tra formazione e mondo del lavoro in tutte le aree. Servono politiche che attraverso azioni di defiscalizzazione incentivino un rapporto più stretto tra Università e Imprese”.
“A livello di scuola – spiega Pacifico – per invertire la tendenza occorre attuare due importanti riforme: anticipare a cinque anni il percorso scolastico e renderlo obbligatorio fino alla maggiore età; in tal modo l’attuale percorso di studi rimarrebbe inalterato, 13 anni complessivi, ma si anticiperebbe di 12 mesi l’uscita, con la novità di mantenere sino all’ultimo l’obbligo di andare a scuola. La seconda riforma coinvolgerebbe quel 36% di giovani che non vanno all’università: si tratta di oltre 150mila ragazzi che ogni anno lo Stato dovrebbe preparare al meglio per il mondo del lavoro. E c’è solo un modo per farlo: prevedere per loro la frequenza di forme avanzate di alternanza scuola-lavoro tra i 15 e i 18 anni di età, quindi nei tre anni finali delle superiori. Così si renderebbero appetibili alle aziende, evitando – conclude il sindacalista Anief-Confedir – che vadano ad ingrossare la già troppo folta categoria dei Neet”.
Sono allarmanti i dati provenienti da una ricerca attuata da Palazzo Koch e dal consorzio Almalaurea: i nostri giovani laureati trovano difficoltà a trovare un impiego e chi c’è l’ha è pagato poco (mille euro al mese) e sempre più spesso in ‘nero’. Per il sindacato occorrono risorse vive per rilanciare formazione e lavoro, Solo così si può sovvertire una situazione drammatica derivante dalla crisi economica e lavorativa. I numeri parlano chiaro: in un solo anno perse 10mila immatricolazioni accademiche, tra gli immatricolati gli abbandoni sfiorano il 20 per cento, quasi 60mila unità l’anno, e il numero di giovani che oggi raggiunge la laurea rimane tra i più bassi dell’area Ue, oltre 15 punti percentuali sotto la media.
“Se non si inverte la rotta, tornando ad investire sulla conoscenza, rischiamo di svuotare le università”. A sostenerlo è Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario organizzativo Confedir, a seguito dell’allarme lanciato dal Governatore della Banca d’Italia, Vincenzo Visco, sullo scarso rendimento in termini di redditi lordi dei lavoratori italiani laureati rispetto a quelli dei grandi Paesi europei (-15 punti). Ma anche dal consorzio Almalaurea, che nelle stesse ore ha messo in evidenza le difficoltà crescenti dei laureati nel trovare un impiego (negli ultimi cinque anni ad un anno dal titolo si è passati dal 10% al 26,5% di neo-dottori disoccupati), l’aumento del lavoro nero intellettuale (schizzato al 13% tra i laureati a ciclo unico) e gli stipendi ‘da fame’ (attorno ai mille euro) che sono costretti ad accettare sempre più giovani che concludono gli studi accademici.
Il calo di interesse che si sta manifestando per l’Università italiana è sempre più evidente. A tutti i livelli. In entrata, perché le immatricolazioni negli ultimi 10 anni si sono ridotte del 20,6%: ormai vi si iscrive appena il 30% dei diplomati. In itinere, visto che il dato nazionale di giovani che lascia nel corso del primo anno, dopo l’iscrizione, sfiora le 60mila unità: è come se ogni anno scomparisse un ateneo della grandezza dell’Università Statale di Milano.
Ma anche in uscita, come ravvisato in queste ore, la situazione sta precipitando. Con la crisi economica e lavorativa che sta producendo effetti devastanti sulla spendibilità della laurea: in Calabria i giovani tra i 24 e i 35 anni sono infatti 314 mila; in Puglia quasi 630 mila; in Campania poco meno di 920 mila; in Sicilia 775 mila. Sommati fanno oltre 2 milioni e mezzo. Calcolando una media, per queste quattro regioni, intorno al 16% di laureati in quella fascia d’età, si ha un raggruppamento di quasi 420 mila giovani calabresi, pugliesi, siciliani e campani. E poiché secondo l'Istat nel Mezzogiorno i 25-34enni laureati inattivi sono uno su tre, il 33,5%, rappresentano ben 140 mila i laureati che, solo al Sud, non lavorano. Viene da chiedersi cosa faranno, visto che lo stato delle aziende italiane è pessimo: nel biennio 2011-2012 ne sono state chiuse oltre 100mila.
E se i giovani non studiano e non lavorano è inevitabile che vadano a riempire la categoria dei Neet: nel 2012, ha rilevato il Cnel, sono arrivati a 2 milioni 250 mila, pari al 23,9%, ovvero circa un giovane su quattro tra i 15 e i 29 anni: il loro numero è “aumentato – conferma l’Istat – di 95 mila unità (4,4 per cento); dal 2008 l’incremento è stato del 21,1 per cento (+391mila giovani)”.
E a fronte di tutto questo, i Governi italiani che si sono succeduti negli ultimi anni non hanno saputo fare di meglio che tagliare. Anche nell’Università. Dove a seguito della Legge 240/2010, abbiamo assistito alla progressiva riduzione del personale docente e dei corsi di laurea. E alla perdita del ricercatore. Con il risultato che il numero di giovani che oggi raggiunge la laurea rimane tra i più bassi dell’area Ue, oltre 15 punti percentuali sotto la media europea. Ma nessuno tra chi gestisce le sorti del Paese ci fa caso, visto che (dati Ocse) l’Italia si piazza per investimenti nella scuola al 31° posto tra i 32 dell’area: solo il Giappone fa peggio.
“Alla luce dei dati negativi che si succedono, non dobbiamo sorprenderci – sostiene Marcello Pacifico – se poi l’Università viene snobbata dai nostri giovani. Come confermato, di recente, anche dall’Istat, che nell’ultima rilevazione nazionale ha ravvisato un calo di quasi 10mila immatricolazioni (il 3,3%). In un periodo difficile, dal punto di vista socio-economico, come quello che stiamo vivendo, permettere ad un giovane di frequentare gli studi universitari per molte famiglie italiane rappresenta un impegno gravoso. Che può essere affrontato solo laddove rappresenti un investimento sicuro, come lo è stato a partire dal dopoguerra sino alla fine degli anni Ottanta. Quando i corsi di studi erano gli stessi di oggi. E nessuno pensava, forse vaneggiando, che per innalzare il livello occupazionale – conclude il sindacalista Anief-Confedir – non bisognasse investire di più su formazione e apprendistato in azienda, ma eliminare il valore legale del titolo di studio”.