Non è scontato che il Governo debba rivedere le modalità di chiusura automatica dell’attività scolastica in presenza nelle zone rosse, già prevista dal DPCM del 2 marzo scorso: vi sono infatti più evidenze scientifiche che indicano come sempre alti i rischi derivanti dalla frequenza delle classi, peraltro aggravati dalla novità delle varianti che hanno raggiunto l’Italia e che colpiscono in modo particolare i giovani. Senza dimenticare che le scuole continuano a non essere fornite di adeguati dispositivi e materiali anti-Covid, né della possibilità di effettuare continui monitoraggi e test rapidi.
“A pesare sulla decisione del Governo – dice Marcello Pacifico, presidente nazionale Anief – potrebbe essere anche la doppia recente ordinanza del Tar, secondo la quale bisogna rivedere il concetto di chiusura delle attività in presenza nelle zone rosse che fa riferimento a più studi che sdoganano la scuola da luogo di contagi da Covid. La posizione, però, non tiene conto di un dato fondamentale: gli studi non tengono conto in modo adeguato delle varianti delle ultime settimane. E non dicono che i monitoraggi nelle scuole si sono di fatto realizzati su periodi durante i quali la scuola è stata frequentata, soprattutto alle superiori, per solo il 50% di studenti. Senza dimenticare che il personale scolastico deve ancora effettuare la seconda dose di vaccino AstraZeneca, con una copertura al momento non superiore, per stessa ammissione dell’Ema, del 70%”.
Chiudere le scuole non riduce i contagi Covid. Se ne parla insistentemente da giorni. Il sindacato, però, rimane ai fatti. E alle testimonianze degli esperti epidemiologi: è di pochi giorni fa la dichiarazione, ad esempio, di Fabrizio Pregliasco, membro del Cts e virologo dell’Università degli studi di Milano, che ha insistito sull’abbassamento della media generale dei contagi “sotto i 44 anni, e tantissimi casi tra i 13 e i 19 anni ma anche nei più piccoli. Casi nella stragrande maggioranza senza sintomi, ma ovviamente con un grande rischio di diffusione, come si è visto, nei focolai familiari”.
I DUBBI DELLO STUDIO DI LANCET
C’è poi una lunga analisi realizzata dal Post, secondo il quale “le ricostruzioni giornalistiche e le “evidenze scientifiche” di cui parla Draghi” per giustificare la riapertura delle scuole “sono legate allo studio pubblicato lo stesso 26 marzo da Lancet Regional Health – Europe e anticipato in due occasioni dal Corriere della Sera, il 19 dicembre 2020 e lo scorso 22 marzo”. A fronte di questi dati, “una delle critiche più condivise riguarda la scarsa attendibilità del periodo analizzato, dal 12 settembre all’8 novembre, una fase molto precoce della seconda ondata, quando il rischio di contagio era inferiore per tutta la popolazione rispetto a quanto sarebbe successo dopo. Con i dati risalenti a mesi fa, inoltre, non è possibile verificare l’impatto delle nuove varianti del coronavirus, più contagiose. La scarsa conoscenza delle varianti è stato uno dei problemi più rilevanti della cosiddetta terza ondata”.
“Lo studio, poi, non sembra valutare con attenzione il fatto che i bambini hanno una maggiore probabilità di essere asintomatici: contagiati ma senza sintomi, sono difficili da individuare e potrebbero sfuggire al tracciamento, ma potrebbero comunque contribuire a diffondere il virus a scuola e in famiglia”. Infine, continua il Post, “il giornalista scientifico Sergio Pistoi, laureato in Scienze biologiche all’università di Torino e con un dottorato in Biologia molecolare all’Université Pierre et Marie Curie di Parigi, già corrispondente di Reuters Health, la notevole diffusione della ricerca è stata influenzata dal fatto che molti degli autori, tra cui Sara Gandini, gestiscono una popolare pagina Facebook con posizioni generalmente contrarie a lockdown e restrizioni”.
LE ORDINANZE DEL TAR
Sono indicazioni e fattori che devono fare riflettere. Anche chi governa e che deve ora decidere sul riesame delle misure di sospensione delle lezioni in classe: una decisione che sembrava inevitabile dopo che, solo alcuni giorni fa, il Tar del Lazio ha puntato il dito, con due identiche ordinanze, nella parte del Dpcm del 2 marzo scorso nella quale si dispone la didattica a distanza automatica e generalizzata in tutte le scuole delle Regioni in "zona rossa". In quell’occasione, i giudici del tribunale amministrativo - presidente Antonino Savo Amodio e estensore Lucia Maria Brancatelli – avevano accolto la domanda cautelare ("ai soli fini del riesame da parte della presidenza del Consiglio dei ministri delle impugnate previsioni contenute nel Dpcm") presentata da un gruppo di studenti e genitori di alunni minorenni, con decisione di merito rinviata a dopo la discussione nell'udienza del 14 luglio.
Per i giudici amministrativi i ricorrenti "hanno prodotto, a sostegno del ricorso, svariati studi scientifici pubblicati da prestigiose riviste mediche, reports sui dati di contagio in ambito scolastico rilevati in Toscana e in Sicilia, nonché relazioni scientifiche, rilasciate da esperti in epidemiologia, in biomedica e in biostatistica, nelle quali si analizzano i dati forniti dall'Istituto Superiore di Sanità". Inoltre, sempre il Tar ha scritto che negli studi indicati si giunge "alla conclusione che non esistono evidenze scientifiche solide e incontrovertibili circa il fatto che il contagio avvenuto in classe influisca sull'andamento generale del contagio, che l'aumento del contagio tra i soggetti in età scolastica sia legato all'apertura delle scuole, che la cosiddetta variante inglese si diffonda maggiormente nelle sole fasce d'età scolastiche, che le diverse varianti circolanti nel Paese siano resistenti ai vaccini in uso in Italia". Ora, però, anche questa posizione viene vista con un’altra luce.
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