Varie

Solo il 6,6% tra i 25 ed i 64 anni di età è oggi coinvolto nella formazione. Eppure il Regolamento, varato più di un anno fa, prevede la messa a regime immediata delle nuove strutture. Per dare una risposta a milioni di cittadini deprivati culturalmente e senza occupazione. Oltre che per favorire le esigenze di riqualificazione professionale, l'alfabetizzazione linguistica degli stranieri e la formazione nelle carceri.

Marcello Pacifico (Anief-Confedir): è paradossale che i Cpia non siano presenti in realtà svantaggiate. Clamorosa l’assenza nel territorio campano, dove imperversano disoccupazione, Neet e dispersione scolastica. Nell’era della formazione permanente, in Italia mancano ancora alternative all’istruzione tradizionale.

In Italia l’educazione per gli adulti è lontana dal compiersi. Ma quel che è più grave è che latita nelle regioni dove vi sarebbe più bisogno. Come in Sicilia, dove il numero di disoccupati e di cittadini che hanno lasciato i banchi prima del tempo è sopra il livello di guardia, ma al contrario di quel che sostiene il regolamento nazionale, approvato oltre un anno fa, non è stato ancora attivato un centro di formazione per adulti. In Italia appena il 6,6% degli adulti tra i 25 ed i 64 anni ne usufruisce. È una vera miseria, basta ricordare che in Spagna gli adulti che seguono un corso di studi sono il 10,7%.

Il quadro nazionale è davvero desolante: da una ricerca realizzata dall’Anief sulle scuole tagliate negli ultimi due anni è emerso che nel nostro paese ogni Regione potrebbe contare in media su 7 Centri territoriali permanenti, per un totale di 144 Cpia complessivi. Ma la distribuzione è tutt’altro che omogenea: Il valore più alto degli adulti che studiano si riscontra al Centro (7,6%) e quello più basso al Sud (5,7%). Oltre alla Campania, ci sono anche Molise, Umbria e Veneto a non poter contare nemmeno su un centro formativo per adulti. Eppure la Campania è la Regione dove nel 2011 su 100 persone da 20 a 64 anni residenti neppure 43 lavoravano. E sempre in Campania, dati Istat fine 2013, sono concentrati tantissimi Neet: i giovani che non seguono percorsi formativi e non lavorano hanno raggiunto il 35,4%. I non occupati sono quasi 700mila, di cui 225mila di età compresa tra i 15 e i 24 anni. Mentre, paradossalmente, in Lombardia, dove la presenza di Neet è decisamente più bassa (16,2%), sono stati attivati ben 20 Centri territoriali permanenti.

“Si tratta di una contraddizione davvero inspiegabile – dice Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario organizzativo Confedir –, un paradosso tutto italiano sul fronte dell’istruzione e del lavoro giovanile: come si fa a non attivare nemmeno un centro per la formazione degli adulti proprio in Campania, dove abbondano disoccupati e Neet? E dove i diplomati, ci ha detto l’Istat, sono appena il 47%, contro una media nazionale di 9 punti percentuali superiore, addirittura quasi 20 punti in meno rispetto a Lazio, Umbria e la provincia di Trento, dove a concludere con successo le superiori sono il 65% dei giovani?

“E, ancora, come si fa a lasciare al loro destino quel 22 per cento di giovani che escono prematuramente dal sistema scolastico campano? La realtà è che mentre si continua a parlare di istruzione permanente, in Italia nel 2014 ancora non esiste un’alternativa ai canali formativi tradizionali. Eppure le norme esistono e – conclude il sindacalista Anief-Confedir – i numeri indicano chiaramente che il successo formativo è legato a doppio filo con quello professionale-occupazionale”.

È significativo che nel 2010 in Europa il 39% dei Neet tra i 25 e i 29 anni aveva un modesto livello di istruzione (licenza media), il 44% una formazione di secondo livello (diploma di maturità), e solo il 17% una formazione di livello terziario (laurea). Un dato che conferma, se ve ne era ancora bisogno, che il livello formativo conseguito incide pesantemente sull’occupazione dei giovani. Solo i nostri governanti non sembrano accorgersene. A costo di disapplicare la legge.

Perché lo scorso anno, il 25 febbraio 2013, sono stati pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale 47/2013 gli 11 articoli del D.P.R. 263/2012 contenenti il Regolamento sul funzionamento dei “Centri provinciali per l'istruzione degli adulti”, al fine di introdurre “le norme generali per la graduale ridefinizione, a partire dall'anno scolastico 2013-2014 e comunque entro” il “2014-2015”, specificatamente per la definizione del loro “assetto organizzativo e didattico”.

Nello D.P.R. 263/12 è stata prevista l’attivazione di “un comitato di verifica tecnico-finanziaria composto da rappresentanti del Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca e del Ministero dell'economia e delle finanze, con lo scopo di monitorare il processo attuativo” dell’introduzione degli stessi Cpia. Questo organismo di esperti, presieduto dal professor Tullio De Mauro e nominato dagli ex ministri Carrozza e Giovannini, rispettivamente dell’Istruzione e del Lavoro, ha affrontato la problematica, giungendo anche a formulare delle ipotesi di intervento.

Come lo sviluppo delle università della terza età, ma soprattutto l’attivazione di luoghi dell'apprendimento culturale collettivo all’interno delle scuole ("Fabbriche della Cultura" sul modello “olivettiano”) aperti anche il pomeriggio e il sabato per favorire nuove iniziative di learning by doing, accogliere corsi e seminari di aggiornamento, agevolare l'accesso alle biblioteche scolastiche, introducendo anche una piattaforma di networking.

L’obiettivo primario di questo progetto sarebbe stato quello di far conseguire dei titoli di studio di primo e di secondo livello, attraverso dei patti formativi individuali, in grado di valorizzare le competenze già acquisite e di conciliare i tempi del lavoro e della famiglia. Con i centri per adulti che sarebbero dovuti diventare una risposta concreta per centinaia di migliaia di Neet. Ma anche per la riqualificazione professionale di chi ha perso lavoro, un luogo in cui favorire l'alfabetizzazione linguistica per gli stranieri e la formazione nelle carceri, rispondendo ad un bisogno diffuso di coesione sociale.

A distanza di oltre un anno dall’approvazione del regolamento che ha disciplinato l’educazione degli adulti, però, dei decreti attuativi del regolamento non vi è traccia. Tanto è vero che la stampa specializzata ha ravvisato che in Italia il numero di adulti che si formano “è molto debole, coinvolgendo solo il 6,6% del potenziale pubblico”: appena 144 centri per adulti, seppure 45 in più di due anni prima, appaiono davvero pochi. Ed è ancora più grave che risultino ancora tutti privi di dirigenza scolastica. Il messaggio è chiaro: ancora una volta l’educazione per gli adulti deve attendere tempi migliori.

Per approfondimenti:

ISTAT - Giovani che non lavorano e non studiano (2013)

Il Regolamento sui Centri di formazione per gli adulti: D.P.R. 263/12

 

A distanza di tre anni, il dimensionamento approvato dall’ultimo governo Berlusconi si frantuma sentenza dopo sentenza: dopo quelle fondamentali della Consulta e del Consiglio di Stato è la volta del Tar della Sardegna. Il Molise sulla stessa strada. I tribunali hanno accertato il danno professionale e di vita prodotto ai docenti perdenti posto, che ora dovranno tornare nelle loro vecchie scuole.

Marcello Pacifico (Anief-Confedir): siccome non c’è stato alcun accordo in Conferenza Stato-Regioni, da 1° settembre anche 300 istituti superiori dovranno essere riaperti. E il personale titolare riassegnato. Il nostro sindacato continua a difendere i diritti di chi non farà ritorno al suo posto.

Mancano tre mesi alla fine dell’anno scolastico, ma per il dimensionamento voluto degli ex ministri dell’ultimo governo Berlusconi, Maria Stella Gelmini e Giulio Tremonti, la bocciatura sembra inevitabile: dalle aule dei tribunali continuano infatti ad arrivare espressioni negative contro la “madre” di tutte le cancellazioni e gli accorpamenti degli istituti, il decreto legge 98 del 2011, poi Legge 111/2011, nella parte che ha fissato l'obbligo di fusione degli istituti comprensivi delle scuole dell'infanzia, elementari e medie con meno di “1.000 alunni, ridotti a 500 per le istituzioni site nelle piccole isole, nei comuni montani, nelle aree geografiche caratterizzate da specificità linguistiche”.

Contro quel provvedimento, che ha causato la cancellazione di oltre 1.700 scuole, già reputato "costituzionalmente illegittimo" dalla Consulta con la sentenza 147 del 2012, continuano ad arrivare sentenze negative: prima, nel 2013, il Consiglio di Stato ha cancellato l'accorpamento di tre istituti comprensivi calabresi, poi il Tar Sardegna, all’inizio di quest’anno, ha annullato il dimensionamento di dieci scuole dell’Isola e gli atti conseguenti (decreti di assegnazione dei dirigenti e Dsga, assegnazione personale docente e Ata con decreti di personale sovrannumerario, nonché i codici meccanografici). A fine marzo ci sono tutti i presupposti che anche il Tar Molise segua la stessa strada.

Esemplare è quanto accaduto in Sardegna meno di due mesi fa, con l’Ufficio scolastico regionale che ha disposto quanto stabilito con le sentenze del Tar numero 593, 594, 598, 970 e 971, tutte del 2013, e già ribadito con il decreto del 2 gennaio 2014 n. 42 dello stesso Usr, con il quale è stata annullata “in corso d’anno, con effetto immediato”, la mobilità coatta del personale perdente posto a seguito del dimensionamento attuato nel 2012/13: il personale docente e Ata che ha perso la titolarità ha potuto quindi riacquisirla.

Grazie, di fatto, alla riapertura degli istituti dove svolgevano servizio, illecitamente soppressi o fusi proprio attraverso l’adozione della Legge 111 del 2011. I giudici che operano nell’Isola, inoltre, hanno disposto delle pene pecuniarie, anche consistenti, a danno dell’amministrazione, da assegnare quotidianamente sino a quando non verrà sanata la situazione.

Si tratta di indicazioni rilevanti. Perché potrebbero presto sovvertire quanto disposto negli ultimi sei anni, nel corso dei quali è stata cancellata una scuola su tre: da oltre 12mila sono passate alle attuali 8.400. Con conseguente riduzione dell’organico di dirigenti e Dsga di 4mila unità per profilo. Con il risultato finale che oggi un dirigente scolastico gestisce il proprio istituto, più, in media, altri 4. Senza peraltro avere più la possibilità di retribuire le reggenze affidate ai vicari (L. 135/12).

“In linea con quanto denunciato dall'Anief sin dall’approvazione di quella Legge votata durante l’ultimo Governo Berlusconi – spiega Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario organizzativo Confedir – sono sempre più le sentenze del Tar o del Consiglio di Stato che dichiarano illegittimi gli accorpamenti di plessi, l'assegnazione di dirigenti e Dsga, i decreti che individuano sovrannumerari a seguito dei processi di fusione. I giudici, del resto, non possono fare altro che sottoscrivere l’evidenza della violazione dei criteri di legge: senza un nuovo accordo in Conferenza Stato-Regioni, ai sensi della normativa vigente dopo la sentenza della Consulta, non possono infatti essere attuati nuovi accorpamenti o soppressioni”.

“E questo vale anche – prosegue Pacifico – per le scuole superiori, ma in questo caso dal prossimo anno scolastico: ai sensi della recente Legge 128/13, in mancanza di un accordo con le Regioni, che non c’è stato, l’attuale norma sugli accorpamenti, introdotta con il c. 5 della Legge 111/11 attraverso cui è stato di fatto soppressa l'assegnazione dei dirigenti in 300 scuole superiori, rimane in vigore solo fino al prossimo 31 agosto”.

Il presidente Anief e segretario organizzativo Confedir lo aveva denunciato già nel gennaio 2013 con una lettera aperta ai Governatori delle Regioni, invitandoli a ripristinare il numero di scuole autonome esistenti prima della cancellazione da parte della Corte Costituzionale con la sentenza n. 147/2012 dell'art. 19, c. 4 della legge 111/11 ai sensi della quale tutti gli atti emanati in nome di una norma di legge dichiarata incostituzionale perdono la loro validità ed efficacia dopo la pubblicazione della sentenza. Mentre tutti gli interessati (studenti, personale dirigente e dipendente) possono rivendicare la difesa dei propri diritti soggettivi lesa dall’adozione di norme cancellate dal nostro ordinamento.

Va sottolineato, inoltre, che la sentenza della Consulta n. 147 del 7 giugno 2012 ha comportato, tra l’altro, il ripristino dei criteri che garantiscono l'efficace esercizio dell'autonomia amministrativa e didattica previsti dal D.P.R. 233 del 18 giugno 1998, la cui applicazione garantisce comunque la collocazione di questo personale in uno stato di titolarità. E non di certo il loro posizionamento in esubero. Con tutte le conseguenze, professionali e personali, che ne derivano.

A tal proposito, vale la pena ricordare che in tutto negli ultimi sei anni sono stati circa 200mila i posti, tra docenti e personale Ata, ad essere cancellati per effetto dei piani di razionalizzazione (L. 244/2007, L. 133/2008, L. 111/11, L. 135/12). A proposito del personale non docente, l'Anief ha di recente calcolato che solo nell'ultimo triennio sono stati cancellati 44.500 Ata. Cui vanno aggiunti 2.395 direttori dei servizi generali e amministrativi. In tutto 47mila posti in meno, che corrispondono ad un quinto del totale degli Ata.

Tra i limiti all’esame dei giudici, infine, c’è il mancato rispetto da parte delle Regioni dei pareri delle Consulte provinciali: dei pareri necessari, secondo giurisprudenza costituzionale per il marcato interesse che gli enti locali hanno sul territorio ai fini dell'erogazione del servizio. In gioco c’è anche il valore dei titoli di studio rilasciati dagli istituti scolastici, oltre che le posizioni dei lavoratori coinvolti. Ed ecco perché sono sempre più le famiglie degli alunni che impugnano certe norme astruse assieme al personale della scuola.

Chi è interessato a ricorrere contro il dimensionamento illegittimo, può scrivere a Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. per far rivivere la propria scuola. È possibile aderire al ricorso, anche se a seguito della mobilità si viene dichiarati sovrannumerari su scuola che non dovrebbe essere dimensionata. In questo caso bisogna scrivere a Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo..

Per approfondimenti:

La Corte Costituzionale boccia il dimensionamento scolastico

Il Consiglio di Stato ci dà ragione: basta tagli di organici immotivati al Sud

Dimensionamento 2013-14: Miur e Regioni disapplicano la legge, Anief pronta a difendere studenti, famiglie e personale scolastico

Scuole tagliate: illegittimo per Tar e CdS il dimensionamento operato dalle Regioni negli ultimi due anni

 

Queste le motivazioni dei giudici che bocciano i tagli attuati per il 66,5% al Sud e nelle Isole, dove è più alto il tasso di dispersione scolastica (solo nel 2012 cancellate in maniera illegittima 1.567 sedi autonome): attuazione di una norma incostituzionale (Legge 111/2011) e contro il parere contrario delle consulte provinciali. Dovevano invece essere rispettati i criteri del D.P.R. 233/98. Annullati anche a fine primo quadrimestre i decreti d’individuazione dei dirigenti scolastici-dsga e del personale sovrannumerario, nonché l’assegnazione dei codici meccanografici.

Marcello Pacifico (presidente Anief e segretario organizzativo Confedir) lo aveva denunciato nel settembre 2012 e nel gennaio 2013, scrivendo anche di suo pugno ai Governatori. Ma invano. Poi, nell’ottobre 2013 aveva chiesto modifiche al decreto legge sulla scuola. Ora l’ultima parola passa sempre più ai tribunali.

I tagli alle scuole avviati a partire dal 2000 e culminati con la Legge Tremonti-Gelmini 111/2011 hanno ridotto drasticamente la qualità dell’offerta formativa italiana, penalizzando in particolare le sedi del Sud e delle Isole dove il fenomeno della dispersione scolastica rimane a livello di emergenza massima. Secondo uno studio dell’Anief, in tredici anni si è passati dal rapporto 1 a 5 al rapporto 1 a 7 tra sedi direzionali e plessi decentrati o istituti accorpati. Con il 66,5% dei tagli delle scuole autonome che è avvenuto al Sud-Isole, dove è proprio più alto il tasso di abbandono dei banchi.

La ‘mazzata’ finale al progetto di cancellazione di plessi e scuole autonome è arrivata nell’ultimo biennio. Solo nel 2012 sono stati cancellati in maniera illegittima 1.567 sedi amministrative (scuole autonome) di circoli didattici, istituti comprensivi e medie, mentre per l’ultimo anno dovrebbero rimanere scoperte 595 scuole, specie tra le superiori, affidate in reggenza (legge 128/13). Scomparso un posto su quattro tra dirigenti scolastici e dsga. E ora i tribunali cominciano a dare regione sempre più ai ricorrenti, famiglie e personale docente e Ata, in assenza di risposte coerenti e legittime dei Governatori. Sono già diverse le sentenze del Tar Sardegna, del Consiglio di Stato, del Tar Lazio e ora potrebbe arrivare anche quella del Tar Molise.

Nell’a.s. 2013/2014 con il D.M. 573/2013 sono stati assegnati 8.047 dirigenti e Dsga per dirigere e amministrare 57.216 plessi scolastici, ma la rete delle scuole autonome è stata decisa ancora una volta dalle Regioni sulla base di una legge (111/11) che è stata dichiarata in parte incostituzionale nel dimensionamento delle scuole elementari e medie (art. 19, c.4) e in parte rimane valida soltanto per l’a.s. corrente per le reggenze delle scuole superiori (art. 19, c. 5).

Per sapere a quante scuole è stata tolta l’autonomia (ma non alle RSU che sono rimaste in deroga nei luoghi di lavoro) basta confrontare i dati del D.M. 51/2011 quando furono assegnati 10.211 dirigenti e Dsga, nonostante la riduzione di 610 unità rispetto alla quota assegnata con il D.M. 285/2000. Così si è elevato il numero delle scuole da gestire da parte dei dirigenti, con evidenti ricadute sulla gestione del personale e dell’utenza. E l’area che ha pagato più di tutti nel Paese, è stata ancora una volta quella del Sud e delle due Isole maggiori, Sicilia e Sardegna, dove si sono tagliate due scuole autonome su tre nonostante gli alti e allarmanti numeri sulla dispersione scolastica.

Secondo il Servizio Statistico del Miur, che nel 2013 ha attuato un focus sulla dispersione, “dal punto di vista geografico (Graf.6), il “rischio di abbandono” è prevalentemente diffuso nelle aree del Mezzogiorno, in cui sono maggiormente diffuse situazioni di disagio economico e sociale. La distribuzione regionale individua, per la scuola secondaria di I grado, nella Sicilia (con lo 0,47% degli iscritti), nella Sardegna (con lo 0,41%) e nella Campania (con lo 0,36%) le regioni dove il fenomeno dell’abbandono scolastico è più evidente, seguite dalla Puglia (0,29%) e dalla Calabria (0,19%). Analogamente nella scuola secondaria di II grado elevate percentuali di alunni “a rischio di abbandono” sono presenti nelle regioni meridionali, prime fra tutte la Sardegna (con il 2,64% degli iscritti a inizio anno), seguita dalla Sicilia (con l’1,6%) e dalla Campania (con l’1,36%).”

Per l’Anief, a questo punto è doveroso ricorrere qualora si ritengano violati i criteri per l’assegnazione dell’autonomia disposti dal D.P.R. 233/98 (scuole da 500 a 900 alunni, con deroghe a 400 su territorio per un terzo montano, 300 per territorio montano e piccole isole). Per info, scrivere a Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.. È possibile aderire al ricorso, anche se a seguito della mobilità si viene dichiarati sovrannumerari su scuola che non dovrebbe essere dimensionata. In questo caso bisogna scrivere a Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo..

Per approfondimenti:

Servizio statistico MIUR: Focus sulla dispersione scolastica (2013)

Scarica la tabella sulle scuole tagliate negli ultimi due anni

 

Studio dell’Anief sulla condizione femminile nell’istruzione pubblica. La percentuale di donne dietro alla cattedra è destinata a crescere: tra gli iscritti ai corsi di formazione per abilitarsi nella scuola primaria e dell’infanzia ci sono corsi dove vi è un solo componente di sesso maschile ogni trenta donne. Continuando nella tradizione: oggi alla materna il 99,6% è rappresentato da maestre.

Già in tenera età i risultati scolastici sono migliori. Inoltre, abbandonano i banchi con meno frequenza, si diplomano con voti più alti e si laureano prima. Ma sul lavoro non hanno sconti: entrano di ruolo e vanno in pensione sempre più tardi.

C’è chi dice che curarsi della crescita culturale dei bambini e delle nuove generazioni sia principalmente un “affare” di donna, perché l’educazione è per definizione e tradizione un’attività tipicamente femminile. Mentre gli uomini se ne sono sempre preoccupati poco. C’è chi pensa che le buste paga degli insegnanti italiani siano incompatibili con le esigenze di un capofamiglia, per tradizione di sesso maschile. Per non parlare della mancanza di possibilità di fare “carriera” e del sempre più sbiadito prestigio sociale. C’è poi chi si dice convinto che i tempi della scuola, con i pomeriggi liberi, si addicono particolarmente al sesso femminile, per tradizione dedito alla famiglia. Fatto sta che quando si pensa ad un insegnante della scuola italiana il pensiero va ad una donna.

I NUMERI
A sostenerlo, del resto, sono anche i numeri: oggi il corpo docente italiano è per l’81,1% composto da donne. Una percentuale altissima: in Europa solo un Paese, l’Ungheria, conta una presenza maggiore di sesso femminile dietro la cattedra (82,5%). A livello di scuola d’infanzia, poi, tocchiamo un record mondiale: solamente lo 0,4% di maestri sono uomini. Una presenza che alle superiori si riduce sensibilmente, ma sfiorando il 60% costituisce sempre la grande maggioranza. Anche in questo caso si tratta di una caratteristica tipicamente italiana: basti pensare che in Germania le donne di ruolo impegnate nella scuola secondaria di secondo grado sono il 46,2%.

LA SCUOLA
La maggiore predisposizione delle donne verso la scuola sembrerebbe legata anche a fattori biologici. Che si manifestano già in tenera età. Con i risultati migliori, già nella scuola primaria, molto spesso ad appannaggio del sesso femminile. Se guardiamo ai dati sulla dispersione scolastica, il tema non cambia: nel 2012 l’Italia era ancora ferma al 17,6% di giovani usciti dal circuito formativo prima dei 16 anni; una quota decisamente lontana dal valore medio dell’indicatore nell’Ue27, che si attesta al 12,8 per cento. Però se si guarda al genere di alunni italiani che lascia i banchi prima del tempo, il quadro diventa ampiamente in attivo: tra i maschi sale infatti al 20,5%, mentre tra le femmine scende al 14,5% (non molto distante dalla media europea).

Il rapporto più felice tra donna e istruzione si evince, inoltre, dalle ultime risultanze Ocse: scorrendo i dati OECD (Education at a Glance 2013), emerge che in Italia i maschi diplomati della secondaria sono il 70% tra i 25-34enni (+25%), invece le femmine diplomate raggiungono il 75% nella stessa fascia di età (+35%). A quindici anni le femmine hanno competenze in lettura significativamente più alte dei maschi, mentre questi ottengono risultati migliori in matematica, ma di misura statisticamente non significativa. Le ragazze coltivano, inoltre, aspettative di lavoro più elevate dei maschi e si iscrivono ai corsi di istruzione universitaria più dei ragazzi.

UNIVERSITA’ E LAVORO
E nell’istruzione terziaria le donne primeggiano sul totale della popolazione, con il 16% contro il 13% degli uomini, in sintonia con la media dei paesi Ocse (donne 33%, uomini 29%). Sempre dall’università giungono numeri eloquenti: le donne iscritte ad una Facoltà di studi italiana sono di più (56%), hanno ottenuto alla maturità un giudizio medio alto (87/100) e si laureano almeno un anno prima degli uomini. Tuttavia, il tasso di disoccupazione delle laureate rimane più alto, il 6,7%, contro il 4,1% dei maschi. Anche perché scegliendo in prevalenza corsi di studi umanistici, le donne hanno molte meno probabilità dei maschi di operare professionalmente in campi tecnologici o comunque economicamente più produttivi. In ogni caso, anche a parità di titolo di studio guadagnano meno degli uomini: in genere la differenza è de 10-20%, anche se non di rado raggiunge punte del 30-40%.

IN RUOLO SEMPRE PIU’ TARDI
Per molte donne la scuola, dove non vi sono differenze di stipendio in base al genere, ha sempre rappresentato un’isola felice. Negli ultimi anni le cose però si stanno complicando. Il loro reclutamento è diventato sempre più lento: basta dire che tra il 2009 e il 2011 il numero degli insegnanti si è ridotto del 9% passando, da 843mila a 766mila unità. Un decremento che ha riguardato maggiormente i docenti precari, tagliati del 25%, mentre quelli di ruolo sono scesi del 6%. Così l’attesa prima dell’assunzione a tempo indeterminato si è sempre più allungata. Tanto è vero che oggi le nostre docenti con meno di 30 anni sono appena lo 0,5%, mentre in
Germania la presenza di insegnanti under 30 si colloca al 3,6%, in
Austria e Islanda al 6%, in Spagna al 6,8. Tanto è vero che qest’anno non sono mancati i casi di donne ultrasessantenni convocate per essere immesse in ruolo. E ormai complessivamente due insegnanti italiani su tre hanno almeno 50 anni.

LA PENSIONE SI ALLONTANA
Per le donne che insegnano anche lasciare il lavoro, per accedere alla meritata pensione, è diventato un problema. Un vantaggio che però, a seguito dell’approvazione della riforma Fornero, sta venendo meno: dal 1° gennaio del 2012 l’età minima per accedere all’assegno di quiescenza è passato da 60 a 62 anni, da quest’anno servono 63 anni e 9 mesi. Mentre per quelle che non posseggono il requisito dell’età anagrafica, occorre un’anzianità contributiva di 41 anni e 6 mesi entro il 31 dicembre 2014. È quasi superfluo dire che si tratta di un’imposizione che fa arrivare le donne italiane alla pensione scontente e affaticate: sarebbe servita un’introduzione della legge più graduale e dando la possibilità alle docenti con oltre 20-25 di insegnamento alle spalle di diventare tutor dei nuovi colleghi, alleggerendole in questo modo dal peso dell’insegnamento tradizionale e fornendo un prezioso aiuto alle nuovi generazioni d’insegnanti. Sempre più rosa.

Per approfondimenti:

Ocse. Le donne sempre più brave rispetto agli uomini, ma sempre remunerate di meno

Insegnanti maschi assenti

Prof sempre più vecchi, donna in ruolo a 62 anni dopo 33 di precariato

Con il 2014 altro giro di vite sulle pensioni: gli insegnanti italiani i più vecchi al mondo

 

La Commissione di Bruxelles sottolinea che nel nostro Paese servono in media 10 mesi e mezzo per ottenere un’occupazione dal conseguimento del titolo di studio. Anief-Confedir: urge alzare la qualità formativa, servono organici flessibili, investimenti veri e più tempo scuola.

Per trovare un’occupazione un giovane italiano deve aspettare quasi un anno, per l’esattezza 10 mesi e mezzo, dal conseguimento del titolo di studio: un periodo lunghissimo se si considera che nell’Europa a 27 solo la Grecia fa attendere di più ai propri giovani per trovare un impiego. Il dato è contenuto nel documento attraverso cui Bruxelles chiede al Governo italiano “un’azione urgente e decisa” per combattere l’appiattimento competitivo e la continua salita del debito: dopo aver sottolineato che l'Italia ha la percentuale più alta di popolazione con istruzione solo di base e la percentuale più bassa di popolazione con istruzione terziaria nell'Ue, la Commissione si sofferma sul fatto che il tempo medio tra il conseguimento del titolo di istruzione e l'inizio del primo lavoro è stato di 10,5 mesi. Siamo secondi solo alla Grecia (13,5).

La stampa specializzata ha osservato che si tratta di indicazioni davvero preoccupanti. Anche perché, parallelamente, aumenta in modo vertiginoso la presenza di Neet (giovani di età compresa tra 15-29 non in materia di istruzione, occupazione o formazione): nel 2012 era al 24%, la terza percentuale più alta in Europa. Non fanno ben sperare anche i modesti tassi di competenze per gli adulti, ma anche per i giovani: “dati negativi che puntano a un ulteriore ampliamento del divario delle abilità nel futuro. Così in particolare in sede OCSE PIAAC, l'Italia si colloca al fondo dell'alfabetizzazione tra i paesi partecipanti al sondaggio e solo al di sopra la Spagna nelle abilità matematiche. Solo il 3,3 % degli italiani raggiunge il punteggio più alto per l'alfabetizzazione (media OCSE dell'11,8 % ) e del 4,5 % per la matematica (media OCSE è circa il 10%)”.

Come ravvisato dal sindacato in queste ore, si allarga sempre più la forbice tra l’istruzione impartita al Nord rispetto a quella del Sue e delle Isole: “ad esempio, gli studenti di Trento, Veneto, Friuli-Venezia Giulia e Lombardia tendono ad avere punteggi medi ben al di sopra della media OCSE”. Come se non bastasse, “la percentuale di giovani tra i 18 ei 24 anni che lasciano la scuola senza istruzione secondaria superiore era 17,6 % nel 2012 , vale a dire 5 pps superiore alla media UE - 27 e ancora al di sopra dell'obiettivo nazionale per il 2020 ( 15-16 % )”. In particolare, il tasso di abbandono risulta molto alto durante il primo anno delle superiori. Con discrepanze regionali non indifferenti: “il tasso varia da circa il 15 % nelle regioni settentrionali e centrali al 25% in Sicilia e Sardegna (20% nel resto del sud)”. È più alto proprio nelle regioni dove i Governi negli ultimi anni, soprattutto tra il 2008 e il 2011, hanno tagliati più docenti.

Va male, se non peggio, l’esito del successo formativo a livello universitario: il tasso di drop-out terziaria in Italia (55%) è stato il più alto tra i paesi OCSE. E nelle fasi successive della vita lavorativa, la partecipazione degli adulti italiani per "l'educazione degli adulti" è tra le più basse nei paesi PIAAC (il 24% dei lavoratori rispetto alla media OCSE del 52%). In generale, la spesa pubblica italiana per l'istruzione equivale al 4.5% del PIL, 1 pp inferiore alla media UE, “soprattutto a causa una riduzione della spesa per l'istruzione terziaria”.

“Quel che risalta da questo rapporto – spiega Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario organizzativo Confedir – è che non solo, come segnalato dal sindacato, occorre introdurre degli organici dei docenti flessibili in modo da fronteggiare le diverse complessità sociali, culturali ed economiche delle varie aree del Paese. Ma occorre tornare ad investire con decisione su tutto il comparto istruzione. E più in generale nella conoscenza. Anziché pensare di cancellare un anno di scuola, penalizzando il percorso della scuola superiore - conclude Pacifico -, si torni ad alzare il tempo scuola e a dare dignità al corpo insegnante che oggi percepisce stipendi tra i più bassi dell’area Ocse”.

Per approfondimenti:

Al Sud in 5 anni sparito il 15% di insegnanti di ruolo: così si spiega il boom di abbandoni e disoccupazione

Fondazione Agnelli: la scuola ha già dato molto

Abi-Censis: Territorio, banca, sviluppo - I sistemi territoriali dentro e oltre la crisi

Servizio statistico Miur: Focus ‘La dispersione scolastica’ (2013)

E li chiamano Neet: dossier Anief-Confedir sull’evoluzione del quadro formativo e occupazionale dell’ultimo decennio