Varie

Il sindacato incrocia i dati ufficiali su scuola e occupazione dell’ultimo decennio: nella fascia 15-24 anni quasi 1 su 2 è in cerca di un’occupazione. Dal 2007 i Neet sono aumentati di 5 punti percentuali, così oggi i ragazzi italiani che non studiano e non lavorano sono diventanti 1 su 4. Nel contempo, si mantiene alto il numero di quelli che lasciano i banchi prematuramente, raddoppia quello di chi fugge all’estero e si triplica la quantità di ultratrentenni che rimangono a vivere con mamma e papà. Mentre il potere d’acquisto delle famiglie si assottiglia e gli stipendi dei docenti scivolano tra i più bassi dell’area Ocse.

Anief-Confedir: dall’analisi emerge che su questa deriva hanno pesato tantissimo la riforma Gelmini e i tagli draconiani attuati dai Governi sull’istruzione pubblica. Per questo urge un’immediata inversione di tendenza.

Non hanno comportato alcun beneficio le riforme Gelmini dell’Istruzione e le applicazioni della Legge 133 del 2008 dell’ultimo Governo Berlusconi, che ha prodotto la cancellazione di 200 mila posti tra docenti e Ata, la soppressione di 4 mila istituti autonomi e il taglio al solo comparto Scuola di 8 miliardi di euro. Anzi, hanno comportato solo una lunga striscia di risultati nefasti. Prima sul fronte della didattica, con la riduzione di un sesto dell’orario scolastico. Poi dei risultati scolastici, con l’abbassamento dal 79,9% al 76,2% della percentuale di diplomati tra i giovani di 19 anni.

Nel 2012 è stata davvero modesta la riduzione di chi ha abbandonato troppo presto i banchi di scuola, pur avendo conseguito solo la licenza media: i giovani tra 15 e 24 anni a trovarsi in queste condizioni sono stati quasi 760 mila, il 17,6% della relativa fascia di età. Mentre in Europa il tasso di abbandono non arriva ormai al 14%, e peggio di noi fanno solo Spagna (24,8%) e Portogallo (20,8%). In Italia, la situazione è leggermente migliore al Centro-Nord, dove la dispersione si attesta al 16%. Mentre la percentuale di dispersione di studenti aumenta al Sud Italia, dove è al 22,3%: preoccupano Sicilia, Sardegna e Campania, dove vi sono aree con punte di abbandoni scolastici del 25%.

Anche l’allontanamento degli italiani dalla lettura, rilevata in queste ore dall’Istat attraverso il rapporto “La produzione e la lettura di libri in Italia” non è casuale, ma figlio della politica di recessione verso la formazione delle nuove generazioni: secondo l’Istituto nazionale di statistica, infatti, i lettori in Italia sono calati passando dal 46% del 2012 al 43% del 2013. Con una riduzione di lettori che ha interessato principalmente la fascia di età maschile tra i 15 ed i 17 anni, scesa in un solo anno quasi di dieci punti: dal 48,9% al 39,4%.

“L’allontanamento dall’Europa in materia di dispersione scolastica – spiega Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario organizzativo Confedir – non è un dato che ci sorprende. Ma è legato proprio ai tagli a risorse e organici della scuola attuati negli ultimi anni. Ora, siccome è scientificamente provato che i finanziamenti sono correlati al successo formativo, più si taglia e più la dispersione aumenta. Per cui, come rilevato di recente da Eurostat, anziché pensare ad altri tagli è giunto il momento di tornare ad investire”. Il sindacalista Anief-Confedir indica anche dove: “nella formazione, puntando in particolare sull’apprendistato, nel tempo scuola, nelle professionalità e competenze. Cominciando, quindi, ad aumentare il tempo scuola e a creare degli organici potenziati per le aree a rischio e più difficili”.

E se i giovani non studiano e non lavorano è inevitabile che vadano a riempire la categoria dei Neet: nel 2012, ha rilevato il Cnel, sono arrivati a 2 milioni 250 mila, pari al 23,9%, ovvero circa un giovane su quattro tra i 15 e i 29 anni. È significativo che nel 2010, a livello europeo, il 39% dei Neet tra i 25 e i 29 anni aveva un basso livello di istruzione (licenza media), il 44% una formazione di secondo livello (diploma di maturità), e solo il 17% una formazione di livello terziario (laurea). Un dato che conferma, se ve ne era ancora bisogno, che il livello formativo conseguito incide pesantemente sull’occupazione dei giovani. Complicata ulteriormente dal fatto che nel biennio 2011-2012 sono state chiuse oltre 100mila aziende.

Evoluzione del quadro formativo e occupazionale dei giovani italiani

Anno
2000
2007
2012
Tasso assoluto di disoccupazione
10,4%
6,5%
11,2%
Tasso di disoccupazione giovanile (tra i 15 e i 24 anni)
 
26,2%
 
20,3%
 
41,2%

Under 24 che hanno abbandonato gli studi dopo aver conseguito solo la licenza media

 
25,3%
 
20,8%
 
17,6%

Neet (giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano e non lavorano)

 
20,9%
 
18,9%
 
23,9%

 

Per approfondimenti:

Il dossier Anief-Confedir sull’evoluzione del quadro formativo e occupazionale dell’ultimo decennio

 

Analizzando una serie di studi, anche di portata internazionale, il sindacato dimostra che in Italia il mantenimento dell’alto tasso di abbandono scolastico, il boom della disoccupazione, la fuga all'estero dei nostri giovani e la caduta libera del potere d'acquisto degli stipendi hanno un denominatore unico: le riforme e i tagli draconiani attuati dagli ultimi Governi sulla pelle delle nuove generazioni.

Marcello Pacifico (presidente Anief e segretario organizzativo Confedir) si appella alle istituzioni: se si vuole arrestare l’ascesa di under 24 che abbandonano gli studi e non trovano lavoro, in particolare al Sud, il 2014 dovrà essere l’anno della controriforma della scuola, con investimenti consistenti nell’istruzione, nell’università e nella ricerca. Perché è ormai appurato che solo la crescita della scolarizzazione può ridurre il numero di giovani altrimenti condannati a vivere senza un progetto di vita.

Continua a preoccupare il numero di giovani tra i 15 e 24 anni che in Italia abbandona gli studi senza trovare lavoro: nelle ultime ore, il “Rapporto sulla coesione sociale 2013 di Istat, Inps e Ministero del Lavoro” ha confermato, dopo il Focus “La dispersione scolastica” realizzato dal Miur, che nel 2012 sono stati addirittura 758 mila i ragazzi che hanno conseguito un titolo di studio al massimo “ISCED 2” (scuola secondaria di primo grado) e che non partecipano ad alcuna attività di educazione/formazione. Si tratta di un numero altissimo, pari al 17,6% della relativa fascia di età: in Europa il tasso di abbandono non arriva al 14%, e rispetto alla nostra Penisola fanno peggio solo Spagna (24,8%) e Portogallo (20,8%).

Obiettivamente, in Italia rispetto al 2000, quando erano il 25,3%, i giovani ad abbandonare la scuola senza conseguire un titolo superiore alla licenza media sono diminuiti. Ma la Commissione europea ci dice che nel 2012 in Italia il tasso di abbandono scolastico ha continuato a rimanere alto, tanto da rendere ormai impossibile l’obiettivo del raggiungimento del 10% entro il 2020. E lasciando invece attivo il circuito esponenziale che unisce la dispersione scolastica con il fenomeno dei Neet (Not in education, employment or training) e, soprattutto al sud, della criminalità.

Rispetto alla media dei 28 Paesi dell’Ue, scesa al 12,7%, vi sono ancora cinque Paesi ancora molto lontani dalla meta. Tra questi figura proprio l’Italia, oggi al 17,6%, che per numero di 18-24enni che hanno lasciato gli studi prima del tempo è riuscita a fare peggio anche della Romania, che è al 17,4%. Mentre sono lontanissime la Germania (10,5%), la Francia (11,6%) e il Regno Unito (13,5%). Non può consolarci sapere, sempre dalla Commissione europea, che in Spagna gli early school leavers, sono il 24,9% dei ragazzi. E che anche Malta (22,6%) e il Portogallo (20,8%) sono degli esempi da evitare.

In Italia, la situazione è leggermente migliore al Centro-Nord, dove la dispersione si attesta al 16%. Mentre la percentuale di dispersione di studenti aumenta al Sud Italia, dove è al 22,3%: preoccupano Sicilia, Sardegna e Campania, dove vi sono aree con punte di abbandoni scolastici del 25%. Il rapporto “Bes”, il “Benessere equo sostenibile e sostenibile in Italia”, realizzato dal Cnel su dati Istat, ha recentemente rilevato che sulle competenze di base, in particolare in italiano, il punteggio degli istituti tecnici del Nord è migliore di quello dei licei dalla Campania in giù. In Calabria, Sicilia e Sardegna il livello funzionale si attesta tra 184 e 185 punti, laddove in Valle d’Aosta, provincia di Trento e Lombardia raggiunge i 214 punti. E anche per il livello di competenza numerica si notano evidenti differenze. I risultati peggiorano man mano che si procede da Nord a Sud, al punto che, in italiano, il punteggio degli istituti tecnici del Nord è migliore di quello dei licei del Mezzogiorno. E il periodo più a rischio abbandono rimane quello dei 15 anni, quando i ragazzi frequentano il biennio delle superiori.

La riforma Gelmini dell’Istruzione, accompagnata dalla Legge 133 del 2008 (che a compimento ha portato alla cancellazione di 200 mila posti tra docenti e Ata, alla soppressione di 4 mila istituti autonomi e al taglio al solo comparto Scuola di 8 miliardi di euro) non ha comportato alcun beneficio. Ma ha prodotto risultati nefasti sul fronte della didattica: riducendo di un sesto l’orario scolastico, tanto è vero che oggi l’Italia detiene il “primato” di far svolgere ai suoi alunni della primaria 4.455 ore studio, rispetto alle 4.717 dell’Ocse. E 2.970 in quella superiore di primo grado rispetto alle 3.034 sempre dell’Ocse.

Anche l’allontanamento degli italiani dalla lettura, rilevata in queste ore dall’Istat attraverso il rapporto “La produzione e la lettura di libri in Italia” non è casuale, ma figlio della politica di recessione verso la formazione delle nuove generazioni: secondo l’Istituto nazionale di statistica, infatti, i lettori in Italia sono calati passando dal 46% del 2012 al 43% del 2013. Con un riduzione di lettori che ha interessato principalmente la fascia di età maschile tra i 15 ed i 17 anni, scesa in un solo anno quasi di dieci punti: dal 48,9% al 39,4%.

“L’allontanamento dall’Europa in materia di dispersione scolastica – spiega Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario organizzativo Confedir – non è un dato che ci sorprende. Ma è legato proprio ai tagli a risorse e organici della scuola attuati negli ultimi anni. Ora, siccome è scientificamente provato che i finanziamenti sono correlati al successo formativo, più si taglia e più la dispersione aumenta. Per cui, come rilevato di recente da Eurostat, anziché pensare agli altri è giunto il momento di tornare ad investire”. Il sindacalista Anief-Confedir indica anche dove: “nella formazione, puntando in particolare sull’apprendistato, nel tempo scuola, nelle professionalità e competenze. Cominciando, quindi, ad aumentare il tempo scuola e a creare degli organici potenziati per le aree a rischio e più difficili”.

Uno dei punti “dolenti” di questo stato di cose è anche quella della cattiva informazione. Con gli istituti ridotti allo stremo, tanto che alcuni dirigenti sono arrivati a chiedere ad ogni famiglia fino a 300 euro l’anno di contributi, è una conseguenza inevitabile che le scuole non possano organizzare un adeguato orientamento scolastico e universitario. Pure nel canale d’istruzione terziario, infatti, ci distinguiamo. E sempre in negativo. Il numero di giovani iscritti all’università che raggiunge la laurea è infatti il più basso di tutti. Tanto che l’Italia si posiziona, in alcune fasce d’età, oltre 15 punti percentuali sotto la media europea. I neo diplomati che si iscrivono ad un corso di laurea sono ormai solo il 30%: le immatricolazioni universitarie negli ultimi 10 anni si sono ridotte del 20,6%. Sempre a seguito della Legge 240/2010, abbiamo assistito alla progressiva riduzione del personale docente e dei corsi di laurea. E alla progressiva perdita della figura ricercatore.

Anche a livello di laureati il quadro è drammatico: in Calabria i giovani tra i 24 e i 35 anni sono infatti 314 mila; in Puglia quasi 630 mila; in Campania poco meno di 920 mila; in Sicilia 775 mila. Sommati fanno oltre 2 milioni e mezzo. Calcolando una media, per queste quattro regioni, intorno al 16% di laureati in quella fascia di età, significa un sottogruppo di quasi 420 mila giovani laureati calabresi, pugliesi, siciliani e campani. E poiché secondo l'Istat nel Mezzogiorno i 25-34enni laureati inattivi sono uno su tre, il 33,5%, rappresentano ben 140 mila i laureati che, solo al Sud, non lavorano. Viene da chiedersi cosa faranno, visto che lo stato delle aziende italiane è pessimo: nel biennio 2011-2012 ne sono state chiuse oltre 100mila.

Quel che è sicuro è che nell’ultimo decennio è aumentato il numero di giovani italiani che non riescono a trovare lavoro: tanti rimangono a casa con i propri genitori. Ma in molti casi questo “ammortizzatore” comincia a non reggere più: tanti 50enni, in molti casi appartenenti a famiglie monoreddito, sono rimasti disoccupati. Con il conseguente allargamento del fenomeno dei “working poor”, cioè di chi percepisce retribuzioni sotto la soglia di povertà.

A fronte di una situazione lavorativa così dimessa, va ricordato che anche i redditi degli italiani si sono “asciugati”, tornando ai livelli del 1986: se nel 2007, anno di avvio della crisi economica, lo stipendio medio era di 19.515 euro, oggi siamo scesi a 16.955 euro. In termine mensili, ci ha detto l’Istat, “l’anno scorso, la retribuzione mensile netta è stata di 1.304 euro per i lavoratori italiani e di 968 euro per gli stranieri. Rispetto al 2011, il salario netto mensile è rimasto quasi stabile per gli italiani (4 euro in più)”. E gli stipendi degli insegnanti risultano tra i più bassi: con 32.658 dollari l’anno nel 2010 nella scuola primaria (contro i 37.600 della media Ocse), 35.600 dollari nella scuola media (39.400 Ocse) e 36.600 nella secondaria superiore contro 41.182 dell’area Ocse. Inoltre, sempre in Italia la spesa per l’Istruzione rimane davvero misera. Tanto che (dati Ocse) il nostro Paese si piazza per investimenti nella scuola al 31° posto tra i 32 considerati. Solo il Giappone fa peggio.

E tutto questo avviene proprio mentre crolla il potere d'acquisto delle famiglie: secondo l'Inps nel 2012, anno ‘tra i più critici’ per l'economia e la società italiana, i redditi delle famiglie ne hanno risentito in ‘maniera rilevante’. Si sono infatti ridotti del 2% in termini monetari, ma in termini di potere d'acquisto la caduta è stata di ben 4,9 punti, il picco più alto dall'inizio delle crisi”. L’Istat, inoltre, proprio in questi giorni ci ha detto che dal 2005 i poveri sono raddoppiati.

Non bisogna allora meravigliarsi se nell'ultimo decennio gli under 35 che sono stati costretti a recarsi Oltralpe in cerca di un impiego sono più che raddoppiati, passando da 50 mila a 106 mila. E se nel 2012 l'incremento di coloro che hanno acquisito una residenza straniera (il 54,1% ha meno di 35 anni) ha toccato livelli record, facendo registrare un +28,8% rispetto al 2011. E non ci si può meravigliare nemmeno quando l’Istat ci dice che dal 1983 il numero di ultratrentenni che continuano a vivere con la famiglia di origine, quasi sempre con mamma e papà, è quasi triplicato.

I dati di arretramento sono tanti e diversificati. Sempre nel 2012 si è ridotta, dal 79,9% al 76,2% anche la percentuale di diplomati tra i giovani di 19 anni. E nel 2012 sono stati il 37,8% i giovani 18-24enni che hanno conseguito al massimo la licenza media e non hanno, nel contempo, seguito alcun corso di formazione. Fra questi, quasi uno su quattro stava cercando attivamente un lavoro mentre il 38,5% risultava inattivo. Nel Mezzogiorno si è rassegnato addirittura il 49,1%.

Ora, se si esamina il tasso di occupazione giovanile si scopre che negli ultimi cinque anni ha perso 5,8 punti percentuali, passando dal 24,4 al 18,6%. Sempre nell’ultimo quinquennio (dati Istat) il numero di coloro che cercano lavoro è raddoppiato: il tasso di disoccupazione è passato dal 6,5% del dicembre 2007 all’11,2% del dicembre 2012. In termini pratici, le persone in cerca di occupazione sono aumentate di 1,3 milioni: da 1,6 milioni a 2,9 milioni. Ed è sempre la realtà giovanile ad essere più in difficoltà: l’Istat ci dice che il tasso di disoccupazione dei 18-29enni, dopo una costante discesa tra il 2000 e il 2007, ha avuto un'impennata nel corso degli ultimi quattro anni raggiungendo, nel 2011, il 20,2%, un punto percentuale al di sotto del picco che si registrò nel 1997. Nello stesso 2011, il tasso di occupazione dei 18-29enni è sceso al 41%, dopo aver toccato il valore massimo del 53,7% nel 2002.

E se i giovani non studiano e non lavorano è inevitabile che vadano a riempire la categoria dei Neet: nel 2012, ha rilevato il Cnel, sono arrivati a 2 milioni 250 mila, pari al 23,9%, ovvero circa un giovane su quattro tra i 15 e i 29 anni: il loro numero è “aumentato – conferma l’Istat - di 95 mila unità (4,4 per cento); dal 2008 l’incremento è stato del 21,1 per cento (+391mila giovani)”. È un andamento di cui, obiettivamente, occorre preoccuparsi. Perché non solo è crescente, ma nello stesso periodo i giovani disoccupati e non in formazione olandesi erano meno del 5%. I tedeschi solo l'8%. Molti meno Neet che in Italia figuravano anche in Polonia, Belgio, Malta e Cipro (circa l’11%). Anche livello di area Ocse siamo messi male: solo Grecia e Turchia hanno una quota di Neet più elevata dell’Italia.

È significativo che nel 2010, a livello europeo, il 39% dei Neet tra i 25 e i 29 anni aveva un basso livello di istruzione (licenza media), il 44% una formazione di secondo livello (diploma di maturità), e solo il 17% una formazione di livello terziario (laurea). Un dato che conferma, se ve ne era ancora bisogno, che il livello formativo conseguito incide pesantemente sull’occupazione dei giovani.

Nel nostro Paese, quindi, i giovani rappresentano la categoria della popolazione più penalizzata dal deterioramento del mercato del lavoro. Soprattutto dopo che è cresciuta la partecipazione occupazionale degli over 55: sempre nel 2012 i lavoratori delle classi più anziane (55-64 anni) sono risultati quasi 277 mila in più rispetto al 2011, dei quali la maggior parte occupati (+ 6,8% rispetto al 2011): “il minor numero di persone che escono dal mercato del lavoro - ha spiegato il Cnel - riduce la domanda sostitutiva, di rimpiazzo delle persone che vanno in pensione, soprattutto per effetto delle riforme pensionistiche”. Quelle che nella scuola hanno portato il corpo docente italiano ad essere il più vecchio al mondo. E che con l’approvazione della riforma Fornero peggiorerà ulteriormente le cose.

Concludiamo la nostra analisi riportando alcuni passaggi del Rapporto annuale Istat 2013: “Non solo l’occupazione si riduce, più di sette punti in quattro anni, ma anche l’investimento in capitale umano non cresce. Di conseguenza la quota di Neet, cioè di giovani che non lavorano e non studiano, è aumentata in misura maggiore degli altri paesi europei. In Italia, per giunta, la condizione di Neet è, rispetto agli altri paesi, meno legata alla condizione di disoccupato e più al fenomeno dello scoraggiamento: sono di meno quelli che cercano attivamente lavoro e molti di più quelli che rientrano nelle forze di lavoro potenziali. Nel nostro Paese il rendimento dell’investimento in istruzione risulta ancora basso, nonostante che la laurea molto più del diploma stia costituendo una forma di assicurazione contro le crescenti difficoltà del mercato del lavoro”. Si tratta di conclusioni super partes che parlano da sole. E che consigliamo i nostri governanti di leggere attentamente.

Evoluzione del quadro formativo e occupazionale dei giovani italiani

Anno
2000
2007
2012
Tasso assoluto di disoccupazione
10,4%
6,5%
11,2%

Tasso di disoccupazione giovanile (tra i 15 e i 24 anni)

 
26,2%
 
20,3%
 
41,2%

Under 24 che hanno abbandonato gli studi dopo aver conseguito solo la licenza media

 
25,3%
 
20,8%
 
17,6%

Neet (giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano e non lavorano)

 
20,9%
 
18,9%
 
23,9%

 

Per approfondimenti:

I giovani che non lavorano e non studiano (Istituto Regionale Programmazione Economica Toscana 2012)

Education at a Glance 2013 (OECD indicators 2013)

Focus “La dispersione scolastica” (Miur 2013)

Benessere equo sostenibile e sostenibile in Italia (Cnel – Istat 2013)

Rapporto annuale 2013: la situazione del Paese (Istat 2013)

Rapporto sulla situazione sociale del Paese Censis 2013 (Censis 2013)

Giovani che non studiano e non lavorano (Istat 2013)

Rapporto sulla coesione sociale 2013 (Istat, Inps, Ministero del Lavoro 2013)

La produzione e la lettura di libri in Italia (Istat 2013)

 

Anief: dopo la carta igienica pagata dalle famiglie, le minacce di ridurre i riscaldamenti, i ritardi nel pagamento dei supplenti e il tentativo di assicurare gli aumenti di stipendio con il taglio delle attività extra-didattiche, arriva il professore in quiescenza che torna a lavorare senza compenso.

Ogni giorno che passa, la carenza di soldi nelle scuole sta producendo delle soluzioni sempre più ingegnose. Ma che a volte sembrano oltrepassare il buon senso. Come quella avviata a Brescia, dove “l'assessore comunale alla Pubblica Istruzione, Roberta Morelli - riporta Orizzonte Scuola - ha accolto la proposta suggerita dalle stesse scuole di costituire un albo ad hoc, dove raccogliere le disponibilità di ex insegnanti e professionisti a collaborare, gratuitamente, per l'alfabetizzazione degli stranieri e altri progetti di potenziamento e sostegno elaborati dai collegi docenti”. Nel dettaglio, “l'assistenza degli ex prof e professionisti sarà rivolta agli studenti stranieri che a Brescia e provincia, in quest'anno scolastico, superano il 25% delle presenze solo nelle scuole statali elementari e medie della città”.

A Brescia stanno in pratica anticipando quella spending review che presto potrebbe essere adottata in tutte le scuole d’Italia: non si è aspettato neppure lo stanziamento dei fondi del Miur, previsti dall’ultima legge per gli studenti alloglotti, destinati alla formazione dei docenti impegnati sul potenziamento dell’italiano come seconda lingua. Si è preferito fare appello al lavoro gratuito dei docenti pensionati, visto che il fondo d’istituto è risultato sempre più a “secco” dopo le riduzione del Fis, dovuta al mancato aumento a 24 ore dell’orario di servizio dei docenti. Ma anche dopo la cancellazione nell’anno scolastico in corso del 25% del Mof, le risorse statali destinate al miglioramento dell’offerta formativa, destinato al recupero, come assegno ad personam, dei mancati aumenti di stipendio che da contratto sarebbero dovuti essere previsti per il 2011.

Preoccupa, inoltre, il fatto che nel capoluogo lombardo sarà richiesta l'adesione all'iniziativa “anche ad ingegneri o musicisti in pensione per potenziare l'insegnamento della matematica, sviluppare attività musicali e altre attività”. In tal caso, se si dovesse realizzare il modello anche per altri tipi di potenziamento formativo, è evidente che saremmo di fronte ad una tendenza davvero molto pericolosa. Peraltro annunciata in tempi non sospetti dall’Anief, che si è sempre schierata contro gli aumenti di stipendio attraverso il taglio progressivo dei fondi destinati alle scuole.

“Ma quella di nominare docenti in pensione per collaborare alle attività scolastiche a titolo gratuito – commenta Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario organizzativo Confedir – è soprattutto una deriva che trae origine dai tagli ai finanziamenti per le scuole e alle inadempienze dei pagamenti loro destinate da parte del Ministero delle Finanze”.

“La differenza – continua - è che stavolta, anziché minacciare i dirigenti scolastici di ridurre le ore di riscaldamento degli istituti, di costringerli a comprarsi la carta igienica, i toner e l’assistenza ordinaria all’istituto, oppure a sorteggiare i supplenti da pagare, al punto che in migliaia passeranno il Natale 2013 senza stipendio, si è arrivati a costringerli a trovare il modo per evitare di pagare dei docenti professionisti. Assegnando i corsi di ‘potenziamento’ a dei pensionati: degli ex docenti, disposti con spirito di sacrificio e di responsabilità, a tornare dietro la cattedra a titolo gratuito. Non ci vuole molto per capire che – conclude il sindacalista Anief-Confedir – sono due facce della stessa medaglia”.

Per approfondimenti:

Scuole allo stremo, i presidi costretti a chiedere fino a 300 euro a famiglia

Legge di stabilità: dal 2014 istituti finanziati in base ai risultati, ma le scuole non sono aziende o università

 

Mentre si arena la trattativa in Conferenza Stato-Regioni, con il Ministero delle Finanze che non vuole saperne di recedere dalle sue logiche di risparmio sulla pelle di utenti e lavoratori, il sindacato passa al contrattacco: pronti a patrocinare migliaia di ricorsi.

Mentre si sta arenando la trattativa in Conferenza Stato-Regioni per trovare un accordo sul dimensionamento delle scuole, con il Ministero dell'Economia che non vuole recedere dalla volontà di tagliare ancora altri 800 degli attuali 8.496 istituti autonomi, il sindacato Anief decide di passare alle vie di fatto chiedendo pubblicamente il ripristino delle 2mila scuole cancellate negli ultimi anni.

In mancanza di un accordo sulla formulazione di nuovi parametri da adottare per il mantenimento in vita degli istituti scolastici - il Mef chiederebbe almeno 1.000 alunni per ognuno, mentre le regioni sarebbero orientate a chiudere il discorso per 950 - Anief ricorda che tornerebbero in vigore le norme previgenti, previste dal D.P.R. 233/98: scuole normali costituite con un numero variabile tra i 500 e i 900 alunni, scuole poste in montagna e nelle piccole isole con un numero minimo di 300 alunni.

In caso contrario, qualora non si tornassero ad adottare tali parametri, Anief è pronta a patrocinare migliaia di ricorsi ad hoc. Per salvaguardare la titolarità dei dirigenti scolastici, dei Dsga, dei docenti, del personale Ata perdente posto. Ma soprattutto i diritti degli alunni e delle rispettive famiglie, cui verrebbe negata illegittimamente la frequenza dell'istituto scolastico prescelto.

Del resto l'azione del sindacato ha già prodotto i suoi effetti, inducendo il legislatore a introdurre nel Decreto istruzione la necessità di prevedere un accordo tra il Ministero dell'Istruzione, il Mef e le regioni, al fine di verificare, per il prossimo anno scolastico, la composizione dei criteri per "la definizione del contingente organico dei dirigenti scolastici e dei direttori dei servizi generali e amministrativi, nonché per la sua distribuzione tra le Regioni, che provvederanno autonomamente al dimensionamento scolastico sulla base di questo accordo".

"Venendo meno quell'accordo - commenta Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario organizzativo Confedir - è evidente che occorrerà ripristinare quelle leggi sulla formazione degli istituti scolastici mai decadute, a partire dai criteri previsti dal D.P.R. 233 del 18 giugno 1998. Come anche confermato dalla Consulta, con la sentenza n. 147 del 7 giugno 2012, che ha di fatto bocciato la chiusura o l'accorpamento degli istituti con meno di mille alunni".

Nella sentenza 147 del 2012, la Corte Costituzionale aveva ritenuto "costituzionalmente illegittimo" l'articolo 19, comma 4, del decreto legge 98 del 2011, poi legge 111/2011, proprio nella parte che fissava l'obbligo di accorpamento in istituti comprensivi delle scuole dell'infanzia, elementari e medie che per acquisire l'autonomia "devono essere costituiti con almeno 1.000 alunni, ridotti a 500 per le istituzioni site nelle piccole isole, nei comuni montani, nelle aree geografiche caratterizzate da specificità linguistiche". Un concetto ribadito inoltre dal Consiglio di Stato, che si è espresso nella stessa direzione su una controversia riguardante una scuola di Castrovillari.

"Cancellare altre 800 scuole - continua Pacifico - comporterebbe sicuri disservizi: bisogna infatti ricordare che negli ultimi sei anni è stata già cancellata una scuola su tre. Visto che da oltre 12mila sono passate alle attuali 8.400. Con conseguente riduzione dell’organico di dirigenti e Dsga di 4mila unità per profilo. Con il risultato finale che oggi un preside gestisce la propria scuola, più, in media, altri 4 plessi. Tra l'altro spesso posizionati a decine di chilometri l'uno dall'altro".

 

Con punte del 25% nel Mezzogiorno. Ma così ci allontaniamo troppo dalla media dei 28 Paesi dell’Ue, scesa al 12,7%, e all’obiettivo del raggiungimento del 10% entro il 2020. Pacifico (Anief-Confedir): anche su questo versante la riforma Gelmini su istruzione ed università è stata deleteria, perché è scientificamente provato che più si taglia e più la dispersione dei ragazzi aumenta.

Secondo la Commissione europea, nel 2012 in Italia il tasso di abbandono scolastico ha continuato a rimanere alto: rispetto alla media dei 28 Paesi dell’Ue, scesa al 12,7%, e all’obiettivo del raggiungimento del 10% entro il 2020, ci sono ancora cinque Paesi ancora molto lontani dalla meta. Tra questi figura l’Italia, oggi al 17,6%, che per numero di 18-24enni che hanno lasciato gli studi prima del tempo è riuscita a fare peggio anche della Romania, che è al 17,4%.

Non può consolarci sapere, sempre dalla Commissione europea, che in Spagna lasciano la scuola prima del tempo, acquisendo al massimo il titolo di licenza media, il 24,9% dei ragazzi. E che anche Malta (22,6%) e il Portogallo (20,8%) sono degli esempi da evitare. Mentre sono sicuramente da prendere in considerazione quei 12 Paesi dell’Unione che hanno già raggiunto e superato l’obiettivo del 10% di dispersione. E pure Germania, Francia e Regno Unito, quasi prossimi al raggiungimento della soglia.

Ma come rilevato di recente da Eurostat, anziché pensare agli altri è giunto il momento di tornare ad investire: la situazione risulta particolarmente critica in Sicilia, Sardegna e Campania, dove vi sono aree con punte di abbandoni scolastici del 25%. E il periodo più a rischio abbandono rimane quello dei 15 anni, quando i ragazzi frequentano il biennio delle superiori.

“L’allontanamento dall’Europa in merito alla dispersione scolastica – ha detto Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario organizzativo Confedir – non è un dato casuale. Ma è legato a doppio filo ai tagli a risorse e organici della scuola attuati negli ultimi anni. In particolare negli ultimi sei, quando sono stati cancellati complessivamente 200mila posti, sottratti 8 miliardi di euro e dissolti 4mila istituti a seguito del cosiddetto dimensionamento (poi ritenuto illegittimo dalla Consulta). Ora, siccome è scientificamente provato che i finanziamenti sono correlati al successo formativo, questi dati non sorprendono: più si taglia e più la dispersione aumenta”.

È andata in questo modo a seguito dell’attuazione delle riforme Gelmini sulla scuola. Che hanno ridotto di un sesto l’orario scolastico, tanto è vero che oggi l’Italia detiene il “primato” di far svolgere ai suoi alunni della primaria 4.455 ore studio, rispetto alle 4.717 dell’Ocse. E 2.970 in quella superiore di primo grado rispetto alle 3.034 sempre dell’Ocse. Un’operazione che ha spazzato via, come ragionieristicamente calcolato dal Mef, diverse decine di migliaia di docenti.

Ma il calo di interesse si è manifestato anche all’Università. Cui ormai si iscrive appena il 30% dei neo diplomati. Anche in questo caso, stavolta a seguito della Legge 240/2010, abbiamo assistito alla progressiva riduzione del personale docente e dei corsi di laurea. E alla perdita del ricercatore. Con il risultato che il numero di giovani che oggi raggiunge la laurea rimane tra i più bassi dell’area Ue.

Come se non bastasse, in Italia la spesa in Istruzione è sempre più misera: tanto che (dati Ocse) il nostro Paese si piazza per investimenti nella scuola al 31° posto tra i 32 considerati. Solo il Giappone fa peggio di noi. Per non parlare degli stipendi degli insegnanti, tra i più bassi: con 32.658 dollari l’anno nel 2010 nella scuola primaria (contro i 37.600 della media Ocse), 35.600 dollari nella scuola media (39.400 Ocse) e 36.600 nella secondaria superiore contro 41.182 dell’area Ocse.

“Il problema – continua Pacifico - è che invece di investire nella formazione, in professionalità, in tempo scuola, in competenze, ad iniziare da quelle nell’Ict, senza dimenticare l’apprendistato, in Italia si continua a considerare l’istruzione un comparto da cui sottrarre risorse. Invece è un settore chiave e deve necessariamente risalire la china. Assieme – conclude il sindacalista Anief-Confedir – ad artigianato, turismo e nuove tecnologie”.

Per approfondimenti:

Abbandoni scolastici: Italia peggio di tutti nell’Ue a 27

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