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Secondo l'organizzazione internazionale, gli adulti del Belpaese sono in fondo alla classifica europea che stima la capacità e preparazione letteraria e matematica di 24 paesi europei. Il ministro: a preoccupare maggiormente è la condizione dielle donne e dei neet, i giovani che né studiano né lavorano.

ROMA - Cittadini italiani in fondo alla classifica sui saperi essenziali per orientarsi nella società del terzo millennio. E in Italia, si ritorna a parlare di analfabetismo funzionale. Non importa, in altre parole, se gli italiani sanno tecnicamente leggere, scrivere e far di conto. Ma l'uso che sono in grado di fare delle informazioni che possono acquisire anche attraverso le tecnologie digitali. Nell'ultima classifica stilata dall'Ocse (l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), e diffusi oggi dall'Isfol, sulle competenze principali degli adulti il nostro Paese figura all'ultimo posto. Ci piazziamo in fondo alla classica - ultimi tra 24 paesi - per competenze in lettura e al penultimo posto sia per competenze in matematica sia per capacità di risolvere problemi in ambienti ricchi di tecnologia, come quelli delle società moderne.

L'ANALISI DI TITO BOERI

Una maglia nera che preoccupa la politica e che fa il paio con gli scarsi risultati dei quindicenni italiani nei test Ocse-Pisa in lettura, matematica e scienze. "I dati dell'Indagine PIAAC (Programme for the international assessment of adult competencies) dell'Ocse sono allarmanti e impongono un'inversione di marcia", dichiarano Enrico Giovannini e Maria Chiara Carrozza, rispettivamente a capo del dicastero del Lavoro e delle politiche sociali e del ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca. "Desta particolare preoccupazione - continuano - la condizione dei cosiddetti Neet, giovani che né studiano né lavorano: l'abbandono precoce dei percorsi di formazione rischia di pregiudicare il loro futuro, i dati Ocse lo dicono chiaramente".

"Così come - concludono i due membri del governo Letta - è evidente che in Italia c'è un capitale femminile sottoutilizzato sul piano professionale, uno spreco di risorse e talenti che il nostro Paese non può più permettersi". Ma quali sono le competenze indagate dall'Ocse? E a quale livello siamo in Italia? Per quanto riguarda la literacy proficiency, gli esperti parigini hanno preso in considerazione le capacità degli adulti di età compresa fra i 15 e i 65 anni "di comprendere, valutare, usare e farsi coinvolgere con testi scritti per intervenire attivamente nella società, per raggiungere i propri obiettivi e per sviluppare le proprie conoscenze e potenzialità".

Una competenza che prescinde dalla semplice capacità strumentale di leggere e scrivere. E in un mondo che utilizza ormai dati, tabelle e grafici per illustrare tantissimi aspetti della vita comune - dallo spread che, ci dà indicazioni sulle condizioni della nostra economia, alle previsioni del tempo - non sapere "accedere, utilizzare, interpretare e comunicare le informazioni numeriche", la numeracy proficiency , si trasforma in un gap considerevole per i cittadini italiani alle prese con una delle più gravi crisi del mercato del lavoro degli ultimi trent'anni. Nel Belpaese arranchiamo anche per capacità dell'uso delle tecnologie digitali e quelle offerte dalle reti internet "per acquisire informazioni, comunicare e svolgere compiti pratici".

Oltre un quarto degli italiani, il 28%, si piazzano a livello più basso, o addirittura al di sotto di tale livello, per competenze in Lettura. Percentuale che scende al 15% nei paesi Ocse e al 12% in Norvegia. Quasi un terzo della popolazione che leggendo un libro o qualsiasi altro testo scritto riesce ad interpretare soltanto informazioni semplici. Stesso discorso quando occorre confrontarsi con dati, tabelle e grafici. Gli italiani che si piazzano ai livelli più bassi - al primo livello o sotto il livello più basso - sono addirittura 32%. In Spagna che ci contende il gradino più basso sono il 31 per cento abbondante. La Finlandia si piazza al secondo posto col 13 per cento e il Giappone è in testa con appena l'8 per cento di adulti con scarse competenze matematiche.

"La clamorosa bocciatura emersa oggi dal rapporto Ocse-Isfol - commenta Marcello Pacifico, presidente Anief - conferma quello che il sindacato sostiene da tempo: occorre prima di tutto agire con urgenza per rendere obbligatoria la frequenza della scuola sino alla fine delle superiori. Poi è indispensabile restituire ai nostri allievi quel 10 per cento di tempo scuola sottratto nell'ultimo con le riforme Gelmini e infine - continua il sindacalista - invertire il trend dei cosiddetti Neet, quei 2 milioni e mezzo di giovani che vivono le loro giornate senza studiare né lavorare".

Fonte: Repubblica

 

Quanti sono i precari nella scuola, nella sanità, nei ministeri e negli enti? Secondo l'agenzia governativa Aran 317mila. Ma per la Cgia di Mestre sono almeno un milione perché mette nel conto tutte le figure non stabili. A partire da i "liberi professionisti" che sono invece dei dipendenti mascherati. Il governo ha messo in cantiere nuovi concorsi con posti riservati. Ma la Consulta ha mandato ai giudici europei tutta la questione dei lavoratori atipici perché un decreto Ue, recepito dall'Italia, prevede la stabilizzazione dopo tre anni.

ROMA - Vittorio ha vinto il concorso della scuola bandito nel lontano 1990 e da allora aspetta di essere assunto. Già, perché la graduatoria del suo concorso è miracolosamente ancora in vigore. Ogni anno, si reca in Provveditorato sperando che sia finalmente arrivato il suo turno. Ma poi se ne torna a casa e continua ad aspettare. Nel frattempo, la sua barba si è imbiancata e i suoi capelli sono diventati più radi: ventitré anni di attesa per un posto che sembrava a portata di mano sono troppi in qualsiasi paese. Oggi, ha 54 anni e aspetta sempre. Nel 1990, alla sua età si poteva andare in pensione, Vittorio non solo non ci è andato, ma non è stato neppure assunto. E ancora aspetta.

Senza lavoro sull'orlo della pensione. Stesso destino per Giuseppe Scaglione, anche lui di Palermo, che di anni ne ha addirittura 62 ed è in lista per essere assunto come professore di Costruzioni dal lontanissimo 1988, lo scorso millennio. Quando il suo nome comparve per la prima volta nelle graduatorie degli insegnanti precari, il muro di Berlino era ancora una ferita sul Vecchio continente, mentre adesso frotte di turisti affollano il checkpoint Charlie per le foto ricordo. Due storie, quelle di Vittorio e Giuseppe, che sembrano l'esatto paradigma del precariato lavorativo italiano: uno status che, per definizione, dovrebbe essere temporaneo si trasforma in una situazione quasi perenne. Come accade in alcuni Comuni siciliani, dove ci sono precari da 18/20 anni che reggono interi settori strategici. Oppure infermieri, personale tecnico e anche qualche medico precari nella sanità da 15 anni. O gli stagionali tra i vigili del fuoco.

Chi va considerato precario. Ma quanti sono i precari pubblici nel nostro Paese? Secondo l'Aran (Agenzia per la rappresentanza negoziale delle Pubbliche amministrazioni), i precari del pubblico, sono - dato del 2011 - poco meno di 317mila, secondo la Cgia di Mestre, (l'associazione degli artigiani e delle piccole imprese che produce ricerche sullo stato del Paese) sono invece tre volte di più: quasi un milione. Troppi? Il fatto è che si può essere precari anche da liberi professionisti, spiegano da Mestre. L'esercito delle cosiddette partite Iva spesso nasconde una sacca di precariato involontario: se vuoi lavorare, devi farlo alle nostre condizioni. Per la Cgia di Mestre vanno considerati come precari i lavoratori dipendenti con contratto a termine involontari, quelli cioè che lavorerebbero a tempo indeterminato se venisse data loro la possibilità di farlo: i lavoratori part-time involontari, ma anche collaboratori e liberi professionisti che presentano contemporaneamente tre vincoli di subordinazione (un solo committente, imposizione dell'orario di lavoro e utilizzo dei mezzi dell'azienda). Ed è difficile eccepire visto che le tre condizioni sono tipiche del lavoro subordinato.

Dieci milioni senza certezze. Analizzando i dati dell'Istat, ci si accorge che su oltre 22 milioni di lavoratori italiani - dato del mese di luglio del 2013 - soltanto il 53,6 per cento - poco più di 12 milioni - lavora stabilmente e a tempo pieno, Il resto sotto varie forme è precario. Un mondo fluido e mutevole dove è difficile distinguere tra liberi professionisti "per scelta" e involontari, come li definisce l'Istituto italiano di statistica: lavoratori che accettano di lavorare col part-time o con la partita Iva "in mancanza di occasioni di impiego a tempo pieno". Con il Pubblico impiego, lo Stato e gli enti locali, che, anziché promuovere lavoro stabile per garantire sicurezza alle famiglie, attinge a piene mani dall'enorme serbatoio del bisogno di lavoro che, all'articolo 4, la Costituzione sancisce come un "diritto".

Costituzione tradita. "È scandaloso", sbotta Gianni Faverin della Cisl "Se un posto di lavoro non serve più, lo Stato e gli enti locali dovrebbero abolirlo. Se invece è necessario per assicurare un servizio ai cittadini per anni, allora occorre stabilizzare il lavoratore. Non è corretto per lo stesso lavoratore e per la società mantenere un lavoratore precario per anni e anni". La Costituzione all'articolo 97 afferma che "agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge" e il decreto legislativo 368 del 2001 - che attua una direttiva europea in materia di contratti a tempo determinato - stabilisce che dopo tre anni di proroghe "il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato", salvo i casi previsti dalla legge. Per questa ragione, su ricorso dell'Anief (Associazione professionale e sindacale della scuola), la Corte costituzionale ha rinviato ai giudici lussemburghesi l'eventuale trasformazione di 200mila rapporti di lavoro nella Pubblica amministrazione da lavoro precario a contratti a tempo indeterminato. Trasformazione che sta alla base della stabilizzazione dei precari. I comparti del Pubblico impiego che sfruttano maggiormente l'enorme sacca di precariato esistente in Italia sono soprattutto: scuola, sanità, enti locali, università e vigili del fuoco. In alcuni casi, come quello degli enti locali, il blocco contenuto nelle ultime Finanziarie impedisce alle regioni di bandire i concorsi. E il precariato "di Stato" lievita.

Un decreto. Secondo l'Aran tra scuola e sanità si contano 170mila precari, mentre la Cgia di Mestre ne conta quasi 515mila. Oltre 57mila per l'Aran, 118mila per la Cgia di Mestre, i precari della Pubblica amministrazione - Stato ed enti locali - oltre 4mila quelli dell'Università e 3mila e 600 i vigili del fuoco, lavoratori specializzati che rischiano la vita ogni giorno e non sono neppure stabili. A fare l'identikit del lavoratore sempre in bilico ci pensano a Mestre: diplomato, meridionale e con uno stipendio medio di 836 euro mensili. Ma adesso arriva il cosiddetto decreto D'Alia che dichiara guerra al precariato. L'intenzione è meritoria: "Viene rafforzato il principio in base al quale" - si leggeva nel comunicato di Palazzo Chigi del 26 agosto "il ricorso al lavoro flessibile nella Pubblica amministrazione è consentito esclusivamente per rispondere a esigenze temporanee o eccezionali: ne deriva che nella Pubblica amministrazione non è consentito sottoscrivere contratti elusivi del reclutamento tramite concorso. Il tutto al fine di evitare, per il futuro, la formazione di nuovo precariato".

Proroga al 2015. Il decreto, per ridurre il precariato nel settore pubblico, percorre due strade: nuovi concorsi riservati a coloro che nell'ultimo quinquennio hanno maturato almeno tre anni di servizio nella pubblica amministrazione; proroga fino al 31 dicembre 2015 delle graduatorie dei concorsi pubblici approvate dal primo gennaio 2008. Buoni propositi. O risposta politica in attesa che si pronuncino i giudici europei.

Fonte: Repubblica

 

Il Ministro, intervistato da RaiNews24, si sofferma sul fatto che la Scuola è una delle istituzioni che deve essere governata meglio, in modo più efficace e senza far prevalere le sovrapposizioni. E sul sostegno occorre maggiore omogeneità.

Continuano le ammissioni da parte delle massime autorità italiane sui limiti del sistema scolastico italiano e sulla impellente necessità di migliorarlo. Dopo le dichiarazioni del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in occasione dell’avvio del nuovo anno scolastico al Quirinale, che si è soffermato sui “tagli alla cieca” attuati negli ultimi anni sull’istruzione pubblica, il 30 settembre è toccato al ministro dell'Istruzione, Maria Chiara Carrozza. Nel corso di un'intervista a RaiNews24, il responsabile del Miur si è soffermato sulla necessità di ridefinire il titolo V della Costituzione (un percorso di revisione peraltro avviato da oltre dieci anni ma che sinora non ha prodotto modifiche legislative concrete): la scuola, ha detto il Ministro, "è una delle istituzioni che deve essere governata meglio, in modo più efficace".

Entrando poi nel merito, Carrozza ha dichiarato che "i livelli di governo nella scuola sono diversi, regione, enti locali e Stato, e spesso si tramutano in livelli di burocrazia". Spazio, quindi, a detta sempre del Ministro, ad una forma di governance meno burocratizzata, con gli enti locali che dovranno prendersi maggiori onori e responsabilità al fine di attuare una più efficace gestione del sistema formativo dei cittadini.

Sempre nel corso dell’intervista, il Ministro si é soffermato sulla questione degli insegnanti di sostegno: "c'è il problema - ha ricordato - di far sì che in tutte le scuole ci sia la stessa situazione". I numeri, invece, ci dicono che ad oggi prevale un sensibile squilibrio. Con alcune zone del paese dove il rapporto studenti disabili–docenti specializzati raggiunge standard accettabili; altre zone, invece, dove la carenza di personale di sostegno si fa particolarmente sentire. Evidenti disparità sarebbero però presenti, ha di recente denunciato l’Anief, anche nella tabella di suddivisione ministeriale dei 4.447 insegnanti di sostegno da immettere in ruolo entro questa settimana.

Fonte: Tecnica della Scuola

 

La rivincita della precaria. È donna, con più di 35 anni e soprattutto già iscritta in una graduatoria a esaurimento e quindi, appunto, precaria. Questo l’identikit-tipo dei nuovi prof che, da quest’anno, salgono in cattedra dopo aver vinto il cosiddetto «concorsone» (oltre 326mila domande) voluto da Francesco Profumo. Un concorso che almeno nelle intenzioni dell’allora ministro avrebbe dovuto svecchiare la scuola italiana.

Così non sarà, stando ai dati diffusi dal ministero dell’Istruzione, dell’università e della ricerca (il Miur) che ha voluto divulgare una «Operazione trasparenza» sul concorso bandito a settembre dell’anno scorso. Una selezione durissima per arrivare a conquistare uno degli 11.542 posti in palio. Dell’esercito dei candidati, a superare le prove preselettive sono stati nemmeno 95mila aspiranti (94.814). Poi rimasti in 22.607 dopo gli scritti. Di questi, ad oggi, i vincitori sono 8.303, dei quali 3.255 sono stati nominati in ruolo il primo settembre (mentre gli altri dovranno avere la nomina nei prossimi due anni). Solo poco più di ottomila nuovi prof, perché in alcune regioni come la Toscana, il Lazio, la Sicilia, la Calabria e il Veneto, le commissioni sono ancora al lavoro.

Le donne sono in netta prevalenza sui maschi: l’80,9% (6.721) dei nuovi insegnanti. E una su due non è giovanissima visto che supera i 35 anni (il 51%), mentre nemmeno uno su 10 ha meno di 30 anni. Ma i dati statistici confermano che degli 8.303 vincitori ben 5.733 (il 69%) risulta essere iscritto in una graduatoria a esaurimento (le Gae). In realtà i precari hanno dominato la scena sempre, dalle preselezioni.

LA POLEMICA

Il concorso a cattedra? Un «autogol del Miur», commenta l’Anief, il sindacato guidato da Marcello Pacifico. Una «situazione paradossale – aggiunge - Con la preclusione a tutti i laureati negli ultimi 10 anni, il Miur ha creato i presupposti per aggravare, anziché alleggerire, l'età media dei docenti italiani». E sui precari il presidente commenta: «Due assunzioni su tre sono state effettuate su supplenti storici che avrebbero dovuto essere stabilizzati sulla base della direttiva europea».L’età media del corpo docente è uno dei problemi che affliggono la scuola italiana, secondo un report curato dalla Uil e diffuso ieri. La causa di un’età media così elevata è da rintracciare nelle procedure di selezione dei nuovi insegnanti che sono ferme da anni e i tanti precari a cui «scompostamente si è cercato di far fronte con provvedimenti legislativi di immissione tutt’altro che lineari», sostiene Lello Macro, coordinatore dell’ufficio studi e ricerche Uil scuola. Macro punta il dito contro «una ondivaga e assurdamente arzigogolata politica delle abilitazioni all’esercizio della professione docente». Sull’ingresso alla professione, sempre l’Anief ha annunciato di voler ricorrere al Tar dopo che il Miur ha stabilito, che da ora in poi per accedere alle graduatorie per l’insegnamento sarà necessario avere l’abilitazione. «L’operazione ministeriale nel corso degli anni lascerà fuori dalle graduatorie scolastiche centinaia di migliaia di neo laureati», è la denuncia di Pacifico. Che aggiunge: «D’ora in poi anche per fare le supplenze brevi sarà indispensabile l’abilitazione all’insegnamento».

Fonte: Il Messaggero

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XXIV2012

 

 

 

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Ricorso contro il blocco quinquennale della mobilità per il personale docente neo immesso in ruolo 

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