Per allinearsi con la media europea di iscritti nelle Università l’Italia dovrebbe avere 7 mila studenti in più: è quanto emerge dal 3° rapporto Agi Censis, elaborato nell’ambito del progetto «Italia sotto sforzo. Diario della transizione 2020» che si pone come obiettivo quello di studiare le annose criticità del Paese causa principale dell’impreparazione ad affrontare nel modo migliore l’emergenza legata alla pandemia da Covid-19. Il Censis spiega che nell’anno 2019/20 si è confermato l’incremento degli immatricolati nelle università italiane, con un +3,2% rispetto all’anno precedente. Ma non basta, di certo, per rimediare al ritardo abissale. Perché l’Italia è penultima in Europa per numero di giovani con un titolo di studio terziario: in Europa solo la Romania ha numeri peggiori al nostro. Il futuro non sembra roseo, perché appena la metà degli studenti si iscrive, dopo il diploma di secondaria superiore, ad un corso accademico. Crisi economica, borse di studio ridotte all’osso, spese alte per la frequenza dei corsi ed emergenza Covid non aiutano di certo. Ma a pesare è anche la passività di chi governa la formazione: basta dire che l’Italia continua a spendere per l’istruzione universitaria solo lo 0,3% del Pil, l’investimento più basso rispetto a tutti gli altri 27 Stati membri dell’Unione europea.
Anief continua a denunciare questo andamento da anni. “I governi degli ultimi tre lustri - spiega Marcello Pacifico, presidente nazionale Anief - hanno fatto a gara per ridimensionare la spesa per la Conoscenza: con il dimensionamento legiferato nel 2008 e mai cancellato, sono stati soppressi circa 15 mila plessi, 4 mila istituti autonomi, altrettanti Capi d’istituto e Dsga, cancellate 200 mila cattedre e 50 mila posti di personale Ata, più un alto numero di ore settimanali, docenti specializzati e in compresenza, dalla primaria alle superiori. Contemporaneamente si è alzato progressivamente il numero di alunni per aula, dando così il là alla creazione di oltre 20 mila classi pollaio. Per non parlare del precariato cronico, con il record di supplenze toccato proprio quest’anno, che fa il paio con la il corpo insegnante più vecchio mediamente al mondo. Ecco perché diventa strategico e decisivo che i fondi del Recovery Fund vengano convogliati su Scuola e Università: migliorare le strutture, supportare le aree territoriali più difficili, ampliare gli organici, anche tra il personale Ata, investire sull’orientamento, aumentare le ore di lezione settimanale, combattere la dispersione, incentivare l’utilizzo delle codocenze e delle specializzazioni sin dai primi anni di scuola, anticipandola a 5 anni e posticipare l’obbligo formativo alla maggiore età, sono passaggi imprescindibili per dare una svolta e risalire la china”.