Una delegazione Anief qualche giorno fa ha incontrato il Vice Capo di Gabinetto del Miur e ha avanzato delle proposte per modificare dei punti, come: estensione del concorso straordinario all’infanzia, primaria ed educatori, ai docenti delle paritarie e dei corsi Iefp, ai dottori di ricerca, eliminazione della quota limite di posti autorizzati nella nuova graduatoria valida per le assunzioni, riconoscimento del servizio prestato su posti di sostegno, riduzione a due anni del servizio valutabile e comunque valutazione di quello in corso. Tra i punti trattati nella memoria c’è anche la parte relativa all’Università; alla domanda “cosa si dovrebbe fare per ristabilire una situazione di normalità e dare nuove possibilità di accesso ai giovani alla carriera universitaria?” Anief risponde con 4 semplici soluzioni a costo zero
Il ricercatore era una posizione a tempo indeterminato: ci si accedeva tramite concorso pubblico, lo stipendio era modesto, ma c’erano gli scatti biennali e soprattutto c’era la tranquillità e la sicurezza di una posizione stabile nell’Università. Ci si arrivava in genere dopo anni di precariato e sacrifici, solo se testardamente convinti di una vocazione alla ricerca e all’insegnamento che, nonostante le sempre crescenti difficoltà, dava l’entusiasmo per iniziare il difficile percorso della carriera accademica. I ricercatori però avevano un problema.
Il loro stato giuridico prevedeva l’obbligo di fare ricerca, ma non quello di insegnare e infatti, non a caso, si chiamavano ricercatori. Siccome ai tempi non esisteva un sistema di valutazione della ricerca che – con tutti i suoi limiti – è arrivato solo pochi anni fa, non c’era modo di valutare l’attività di ricerca dei ricercatori. Nessuno si curava della questione; ai tempi la programmazione delle carriere nelle Università la facevano le Facoltà, ovvero le strutture didattiche degli Atenei sulla base delle esigenze didattiche e non, come adesso, i Dipartimenti, ovvero le strutture di ricerca. Quindi i ricercatori, se volevano fare carriera, dovevano fare didattica su base rigorosamente volontaria, visto che il loro stato giuridico non ne prevedeva l’obbligo. Era senza dubbio una strana situazione. Con i ricercatori tenuti sotto volontario ricatto, sulla base di speranze di carriera spesso indeterminate e comunque difficilmente programmabili.
Eppure tutto funzionava comunque piuttosto bene, come dimostrano statistiche e dati: il numero di studenti che si iscrivevano alle università era in costante aumento – nonostante il calo delle nascite – la qualità della didattica migliorava con un continuo inserimento di menti e forze giovani, veniva potenziata la ricerca e raggiungeva gli attuali indiscutibili vertici internazionali. Pochi però percepivano il lento miglioramento, anzi la maggioranza invocava modernizzazione, armonizzazione con gli standard internazionali e necessità di nuove riforme. La ricetta per migliorare ulteriormente poteva essere molto semplice: un artico di legge di poche righe per ridisegnare e attualizzare lo stato giuridico dei ricercatori in considerazione delle nuove esigenze delle Università e della Società.
Invece cosa è stato fatto? I vari Governi degli ultimi 10 anni hanno pervicacemente seguito tutti la stessa strada: mettere al centro delle progressioni di carriera la ricerca, a scapito della didattica, esautorando le Facoltà a favore dei Dipartimenti. Poteva essere anche cosa giusta. Siamo convinti che una ricerca di qualità sia il volano fondamentale per una didattica di qualità. È stata quindi istituita l’ANVUR, l’agenzia per la valutazione della ricerca, perché tutti erano d’accordo che c’era bisogno di valutazione. E anche questa poteva essere cosa buona e giusta, se l’ANVUR, dopo i buoni propositi iniziali, non si fosse presto persa in un ginepraio numerologico, burocratico e bibliometrico, incomprensibile, ingiustificabile e, soprattutto, inutile.
È stato quindi riformato il reclutamento e istituita l’ASN – l’Abilitazione Scientifica Nazionale – con la giusta idea di base che i commissari dei concorsi dovessero essere i professori più bravi e che il reclutamento e le progressioni di carriera dovessero essere riservati ai candidati più bravi.
Ma anche qui purtroppo numerologia e burocrazia hanno presto rovinato tutto e oggi l’accesso alle Università e alla carriera accademica sta sempre più diventando materia dei tribunali amministrativi, i quali, dovendo dipanarsi nella complessa architettura di un sistema illogico e poco comprensibile, emettono spesso sentenze contraddittorie e che aggiungono ulteriore complessità a un problema che era già di per sé inutilmente complicato. Ma la cosa peggiore di questo decennio di maldestro riformismo è stata la sistematica demolizione della figura del ricercatore. Già la legge Moratti (230/2005) prevedeva l’esaurimento del ruolo dei ricercatori a tempo indeterminato e la loro sostituzione con analoghe figure a tempo determinato. Provvidenzialmente i suoi effetti erano sospesi, perché forse gli stessi estensori della legge non erano troppo convinti di quello che stavano facendo.
Poi è arrivata la babilonia burocratica della legge Gelmini (240/2010) e la figura del ricercatore universitario è stata definitivamente soppressa e sostituita con due poco comprensibili surrogati: il ricercatore a tempo determinato di tipo A (cosiddetto RTD-A) con contratto triennale rinnovabile una sola volta per ulteriori due anni; il ricercatore a tempo determinato di tipo B (cosiddetto RTD-B) con contratto triennale non rinnovabile, con opzione di chiamata a professore associato in caso di conseguimento dell’ASN e di valutazione positiva dell’Ateneo chiamante. Ovviamente per entrambe le figure è stato inserito il tassativo obbligo di fare didattica.
Tutto ciò ha provocato una serie di effetti deleteri che, quantomeno, avrebbero dovuto essere previsti. Ne citiamo solo alcuni: la progressiva precarizzazione della docenza universitaria con i continui salti mortali dei presidenti dei corsi di studio per adeguare ordinamenti e regolamenti alla costante variabilità del corpo docente;
l’abolizione di fatto della figura del ricercatore a tempo determinato per esclusiva attività di ricerca, esistente praticamente in tutti gli altri Paesi – introdotta da noi dalla legge Moratti e poi abolita dalla Gelmini – che ha generato l’assurdo paradosso che se un docente ha un progetto per reclutare ricercatori a tempo determinato per fare ricerca non può più farlo, perché il tempo che deve essere obbligatoriamente dedicato alla didattica non è giustamente riconosciuto dal finanziatore; l’obbligo dell’inserimento nella programmazione degli Atenei anche dei ricercatori di tipo A, che di fatto è una richiesta di programmare l’improgrammabile, ovvero l’istituzione di posti a tempo determinato che dovrebbero essere legati a contingenti e poco prevedibili esigenze di ricerca e di formazione; un ulteriore squilibrio nell’ambito delle limitazioni del turn over, in quanto i professori e i ricercatori che cessano le attività vengono sostituiti, al 20% o al 50% a seconda delle restrizioni del momento, con effimeri contrattisti a tempo determinato.
È strano fatto che i ricercatori a tempo determinato, con contratto precario e stipendio spesso minore rispetto ai loro colleghi a tempo indeterminato, devono lavorare di più perché hanno l’obbligo della didattica che gli altri non hanno. Un’altra conseguenza negativa, che poteva anch’essa essere facilmente prevista, risiede nel fatto che, per una serie di motivi, i ricercatori di tipo B – quelli relativamente più “stabili” – hanno avuto poco successo negli Atenei.
Le ragioni sono diverse: un po’ perché essi prevedono l’inserimento nella programmazione di una più onerosa futura posizione di professore associato, un po’ perché i ricercatori a tempo indeterminato in servizio e in esaurimento vedono giustamente il percorso privilegiato degli RTD-B come una concorrenza sleale, un po’ perché il meccanismo della tenure track così popolare nel mondo anglosassone qui da noi non è stato compreso appieno, un po’ perché – nonostante le ripetute richieste – a nessun Governo è mai venuto in mente di mettere in atto un piano nazionale di reclutamento di giovani attraverso lo strumento degli RTD-B.
Il risultato è che oggi su un totale di 2649 ricercatori a tempo determinato in servizio negli Atenei statali, solo 255 sono RTD-B. Per la verità il MIUR era intervenuto per prevenire questo problema, introducendo l’obbligo del rapporto 1:1 fra le chiamate dei ricercatori di tipo B e le progressioni di carriera a professore ordinario.
Siamo fermamente contrari alle regole rigide convinti che l’Università sia stata gravemente limitata negli ultimi anni da una regolamentazione ipertrofica e insensata, spesso calata dall’alto con provvedimenti scoordinati riguardanti la Pubblica Amministrazione in generale, in parte determinata da sciagurati interventi del MIUR ma anche, purtroppo, frequentemente auto-imposta dagli stessi Atenei in maldestre interpretazioni della propria autonomia.
Però questa regola rigida un senso l’aveva: era un incentivo a reclutare giovani per posizioni che dessero una ragionevole certezza di inserimento nel mondo universitario. Dato il grande numero di abilitati a professore ordinario scaturiti dall’ASN, gli Atenei sono infatti sottoposti a una grande pressione per gli scorrimenti interni di carriera verso la prima fascia della docenza. Con il vincolo 1:1 almeno si poteva contare su un solido meccanismo per l’inserimento di giovani in Atenei sempre più vecchi. Ma tale limitazione forse non piaceva ai rettori e sicuramente non piaceva alla nuova gestione del MIUR. E allora hanno provato a eliminarla e ci erano quasi riusciti, se non fosse stato per il coro di proteste suscitate.
Cosa si dovrebbe fare per ristabilire una situazione di normalità e dare nuove possibilità di accesso ai giovani alla carriera universitaria?
Proponiamo quattro semplici cose a costo zero o che – anzi – farebbero risparmiare:
- valutare seriamente la possibilità di ripristinare il ruolo del ricercatore a tempo indeterminato, assegnandogli compiti didattici, oppure introdurre il professore junior come proposto dal CUN, ristabilendo altresì una figura di ricercatore a tempo determinato per esclusiva attività di ricerca, com’era prevista dalla legge 230/2005;
- togliere tutte le regole inutili e i vincoli numerologici introdotti dalle recenti riforme, evitando di fare altre leggi o provvedimenti, ma piuttosto abrogando quelli inutili e controproducenti che già ci sono; del resto sembra che tutti, ma proprio tutti, siano d’accordo con la necessità e l’urgenza di semplificazione;
- abolire i punti organico e il bizantino sistema di programmazione del personale denominato PROPER, restituendo agli Atenei la responsabilità di programmare in autonomia il proprio futuro, lo sviluppo scientifico e tecnologico del nostro Paese e la formazione dei nostri giovani;
- lasciare fare la valutazione della ricerca a soggetti terzi che dimostrino solida capacità di saperla fare e impiegare le risorse risparmiate con l’abolizione di agenzie e commissioni inutili, e con l’abbandono di servizi informatici comunque inefficienti, per finanziare un programma nazionale di reclutamento di giovani ricercatori.
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