Tutti gli studi confermano che gli stipendi in Italia sono troppo bassi e stanno perdendo terreno rispetto agli altri Paesi europei. Anche una ricerca della Fondazione Giuseppe Di Vittorio, pubblicata in queste ore: quello che emerge dalla ricerca - basata sulle più recenti statistiche relative alla massa salariale e agli occupati pubblicate dall’Ufficio statistico dell’Unione Europea (EUROSTAT) e sui dati fiscali pubblicati dal Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF) - è che “il divario salariale tra Italia, da una parte, e Francia e Germania, dall’altra, si sia ulteriormente ampliato: la differenza con il salario francese è aumentata da -9,8 mila a -10,7 mila e con quello tedesco è cresciuta da -13,9 mila a -15,0 mila euro”.
Inoltre, dalla ricerca risulta che “confrontando il 2021 con il 2019 si può osservare come la Spagna e l’Italia non abbiano ancora recuperato il livello salariale medio precedente l’emergenza pandemica mentre in Francia, in Germania e nella media dell’Eurozona l’aumento sia stato del +2,0% e più”. Ma l’aspetto più preoccupante della ricerca della Fondazione è “la differente composizione della forza lavoro occupata” che caratterizza l’Italia con una spiccata “partecipazione dei segmenti meno qualificati” e quindi una ridotta presenza delle professioni più qualificate. L’assurdo è che nel nostro Paese le occupazioni di livello più alto (intellettuali e scientifiche) non vengono adeguatamente valorizzate e remunerate. Quindi, chi in Italia svolge le professioni conseguenziali all’acquisizione di titoli di studio elevati, come nella Scuola, è nei fatti penalizzato due volte: a fronte di stipendi generalmente bassi, non viene considerato adeguatamente né il livello di prestazione profusa né quello delle competenze messe in campo.
Il sindacato ricorda, infatti, che nelle scuole gli stipendi non solo risultano almeno il 30% più bassi di quelli assegnati mediamente in Europa, ma gli insegnanti devono lavorare 35 anni per raggiungere il massimo dello stipendio, che però non oltre il 50% in più di quello iniziale. La somma di questi due aspetti – importi ridotti e bassa evoluzione delle buste paga nel corso della carriera – produce dislivelli stipendiali non più tollerabili: “Per allinearci agli altri territori europei servirebbero aumenti di 300 euro netti a dipendente della scuola – dice Marcello Pacifico, presidente Anief – perché parliamo di diverse migliaia di euro l’anno di ritardo. Ricordo che chi insegna in Lussemburgo ha un reddito medio di 110mila euro; a fine carriera in Germania un docente prende 80mila euro, in Italia la metà. Per non parlare di un qualsiasi professionista può arrivare, che può arrivare a guadagnare dieci volte rispetto a un nostro insegnante, come avviene tra gli ingegneri”.
È per questi motivi che Anief ha chiesto di introdurre pensionamenti anticipati per il personale della scuola, dove il burnout ha raggiunto livelli ampiamente sopra la media, e occorre permette di uscire dal lavoro attorno ai 60 anni senza penalizzazioni. Inoltre, il sindacato non può accontentarsi dei 50-60 euro netti medi previsti dal rinnovo del Ccnl 2019-21: certamente, chiede di assegnarli al personale il prima possibile perché è giusto dare ‘ossigeno’ a dei lavoratori che si ritrovano con compensi sopraffatti dall’inflazione: "l'aumento del costo della vita, nell’ultimo periodo addirittura del 7%, ci convince sempre più della necessità di firmare un contratto collettivo nazionale ‘ponte’, per dare una risposta immediata agli stipendi che hanno perso sempre più il potere di acquisto, considerando anche la novità positiva del salario minimo legale. Per poi fissare il confronto all’Aran sul Ccnl 2022-24 sul quale collocare importanti risorse già con la prossima Legge di Bilancio”, ha ribadito oggi Marcello Pacifico.
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11 giugno 2022
Ufficio Stampa Anief
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